C’è un dibattito carsico nella cultura occidentale: a cosa servono i classici?, ci chiediamo di tanto in tanto. Ha ancora senso, nel Ventunesimo secolo, leggere Virgilio o studiare il greco antico, conoscere ogni verso della Divina Commedia o del Canzoniere, o dei pilastri delle diverse lingue europee? Intorno a questo tema si scrivono saggi e articoli, si intessono dibattiti a festival o in televisione, si costruiscono best-seller e carriere.
ISCRIVITI ALLA NEWSLETTER GRATUITA ARABOPOLIS
Nessuno però si chiede come si comportano le culture extra-europee: si pongono le nostre stesse domande? Si danno le stesse risposte? Perché in effetti, ha senso oggi studiare il sanscrito? E ha ancora qualcosa da insegnarci il Gilgamesh? La cultura araba, per esempio, si pone domande simili ma trova risposte originali, sorprendenti, e che valgono anche nel “nostro” rapporto con i “nostri” classici. Ce lo mostra un saggio dello scrittore marocchino Abdelfattah Kilito tradotto in questi giorni sia in inglese che in francese.
Ma partiamo da una premessa: la cultura araba come affronta il problema? Ci aspetteremmo un atteggiamento diverso dal nostro. Infatti, si dice, “gli arabi hanno una concezione del tempo diversa dalla nostra”. Lo si sente spesso, e in parte è vero: forgiare una cultura su una religione che vede la perfezione nel passato (al tempo di Maometto), ha le sue conseguenze: anche se ebraismo e cristianesimo non sono certo al riparo da fanatici che sognano di vivere come nel bel tempo antico. Il secondo motivo è la lingua: l’“arabo classico”, che unisce il mondo della cultura e delle televisioni al di sopra dei dialetti delle diverse nazioni arabofone, discende direttamente dalla lingua del Corano: quindi tra l’arabo dell’epoca di Maometto e quello di oggi c’è meno distanza di quello che accade in altre lingue (l’italiano, per esempio, nel VII secolo dopo Cristo non esisteva ancora).
Però il dibattito sull'utilità dello studio dei classici ferve anche tra gli arabi, e in questo periodo si è allargato anche all’occidente. A rilanciarlo è stato un breve saggio di Kilito, romanziere pluripremiato e docente di letteratura francese a Rabat, dove ha avuto come collega Roland Barthes (tra i suoi testi tradotti in italiano ricordiamo “Non parlerai la mia lingua” ed “Esplorazioni”, per Mesogea, e il saggio sulle Mille e una notte “L’occhio e l’ago”, il Melangolo).
Il nuovo testo, intitolato “Perché leggere i Classici?”, fa parte di una raccolta di quattordici saggi critici uscita in francese per Toukbal nella traduzione di Francis Gouin. In inglese, il testo è stato tradotto da Safwan Khatib per il bimestrale culturale americano “The Baffler” e rilanciato dalla newsletter della rivista britannica Arablit. Kilito si interroga prima di tutto sui classici arabi, ma inevitabilmente mette in discussione anche quelli francesi, che in Marocco si insegnano a scuola, e della cultura occidentale, o meglio quelli che noi occidentali consideriamo capisaldi della cultura tout-court. Tanto è vero che, per la definizione di classico, lo scrittore marocchino si richiama a Italo Calvino – fin dal titolo del saggio, che aggiunge solo un punto interrogativo alla raccolta postuma del 1991.
In una delle sue quattordici definizioni di classico, Calvino parla di «un testo che ci obbliga a definire la nostra identità confrontandoci con esso, a volte in opposizione a esso». Kilito sembra rispondere a questa frase, alla necessità di affermare la propria identità attraverso la contrapposizione, quando paragona i classici ai nostri genitori: «Sono nostro padre e nostra madre. Naturalmente li apprezziamo, li veneriamo, però sentiamo che non vogliamo essere la loro copia, vogliamo raggiungere qualcosa di diverso, vogliamo essere differenti da loro». Questo, aggiunge, è particolarmente vero per i testi arabi perché chi ne scrive mostra immediatamente da quale cultura proviene: «Chiunque studi un testo arabo dichiara inevitabilmente le proprie origini: capiamo subito se è arabo, francese o americano, indipendentemente dalla lingua in cui scrive».
Il saggio di Kilito fa venire voglia di conoscerli, i classici arabi, tenuti ai margini della cultura occidentale. Almeno l’Al Marri che passa dalla tracotanza di paragonarsi al sole («lui, che aveva perso la vista a quattro anni», nota l’autore) a un pessimismo più che leopardiano: «La faccia della terra mi sembra / essere null’altro che corpi di chi è morto prima di noi /quindi sia leggero il tuo passo: / sarebbe una scortesia, anche se è già passato tanto tempo / umiliare i nostri padri e i nostri nonni».
Questo legame personale, famigliare con gli autori classici è fortissimo per Kilito: «È nostro compito prenderci cura di chi è venuto prima di noi, dei nostri antenati. E il più grande segno di rispetto è non dimenticarli, continuare a parlare con loro. Ma per riuscirci è essenziale impegnarci per continuare la loro lingua, visto che loro non potrebbero capire la nostra. Dobbiamo imparare la loro lingua per poter iniziare una conversazione con loro. E permettere loro di immaginare di essere ancora vivi, e così far diminuire le loro sofferenze, i “grandi dolori” dei morti di cui Baudelaire scrive nei “Fiori del male”».
Il confronto con la letteratura francese era schiacciante, ricorda Kilito, quando andava a scuola: «La nostra poesia del passato, per argomenti e immagini, sembrava a noi che la guardavamo dall’alto della letteratura francese superata, inutile. I nostri professori stessi erano imbarazzati». Gli studenti in Marocco si trovavano così «davanti a due diverse famiglie di antenati, due nozioni di classici, due storie letterarie. Ma non è forse ancora così?».
L’appassionato testo di Kilito si apre e si chiude con una domanda, e lascia il lettore al bivio tra quale famiglia di antenati scegliere. Ma davvero è necessario scegliere? Le due famiglie, in fondo, non sono così lontane come ce le hanno dipinte fino a oggi. Kilito, comunque, come lettore di classici si autodenuncia subito: dei quattro pilastri della letteratura araba elencati nei fondamentali “Muqaddimah” di Ibn Khaldoun, lui ne ha letto solo uno, “Il libro dell'eloquenza e della dimostrazione” di Al-Jahiz. Eppure conversare con quell'unico autore classico è bastato a farlo arrivare molto lontano.