Un filo rosso unisce le rivendicazioni del movimento Black Lives Matter e il lavoro di molti artisti contemporanei, soprattutto afroamericani. Sull’onda della protesta gli artisti alzano la voce e conquistano la scena. Figure emergenti dalle radici forti, da rintracciare in due mostre importanti: “American Art 1961-2001”, a Palazzo Strozzi a Firenze (28 maggio-22 agosto, a cura di Vincenzo de Bellis e Arturo Galansino) ha una sezione dedicata all’arte come lotta politica di identità e diritti, in particolare per la comunità afroamericana. Grazie alla collaborazione con il Walker Art Center di Minneapolis, alcune opere saranno esposte per la prima volta in Italia. Mentre al New Museum di New York è aperta la mostra postuma curata da Okwui Enwezor, nigeriano trapiantato in Germania, scomparso nel 2019. “Grief and Grievance: Art and Mourning in America” (fino al 6 giugno) ricostruisce, attraverso le opere di 37 artisti neri statunitensi contemporanei, la relazione tra il lutto della comunità nera e il nazionalismo bianco. «Enwezor aveva pensato la mostra per inaugurarla nei giorni delle elezioni presidenziali, come auspicio per dare nuova dignità alla comunità afroamericana», dice Vincenzo Trione, preside della facoltà di Arti e Turismo dello Iulm, presidente della Scuola del patrimonio del ministero della Cultura, nonché autore del saggio “L’opera interminabile - Arte e XXI secolo” (Einaudi).
In che maniera il movimento Black Lives Matter influenza il mondo dell’arte contemporanea?
«Per la prima volta, in testa alla classifica Power100 della rivista britannica Art Review non c’è una personalità influente del mondo dell’arte, ma un movimento: Black Lives Matter. All’apparenza non ha nulla di artistico: si tratta di un movimento politico di protesta globale. I militanti e gli artisti dialogano sulla soglia tra arte e attivismo, agiscono in rete e in alcuni luoghi marginali delle città attraverso progetti partecipativi, azioni di “hacking” e controinformazione».
La condanna per omicidio dell’ex poliziotto Derek Chauvin ha riacceso l’interesse degli artisti per la figura di George Floyd?
«Tra i tanti artisti impegnati in questa direzione mi viene in mente Jammie Holmes, che a Dallas ha realizzato una serie di striscioni con le ultime parole pronunciate da Floyd, “Non riesco a respirare” e “Stanno per uccidermi”. Nikkolas Smith, invece, ha prodotto un ritratto di Floyd in smoking accompagnato dalla scritta “Giustizia per George”. E Arthur Jafa ha realizzato un’opera in video montando immagini prese dalla scena dell’uccisione. Si potrebbe pensare una mostra dedicata alle opere degli artisti che hanno scelto George Floyd come soggetto».
È la spia di un nuovo impegno diffuso?
«Certo. L’arte oggi ha bisogno di diventare cronaca, rifiuta concettualismi, interviene sul presente oscillando fra testimonianza e reinvenzione. In particolare, la street art è uno dei fenomeni più interessanti per capire la realtà, in una sorta di riattivazione della grande pittura di storia otto-novecentesca. Tra gli altri, un artista e attivista gay messicano, Eric Rieger, nome di battaglia Hot Tea, ha realizzato a Minneapolis un graffito digitale in cui ha proiettato i ritratti giganti di Floyd in alcuni luoghi della città. A Los Angeles Mario Medina lo ha trasformato in una sorta di santo, mentre Donkeeboy lo ha dipinto a Houston come un angelo che recita le parole “Forever breathing in our hearts” (“Respira per sempre nei nostri cuori”)».
Anche in Italia qualcosa sta cambiando?
«Le grandi figure dell’arte italiana sono meno attente a questi temi, mentre esistono anche in Italia street artist impegnati. L’arte da Biennale, invece, è lontana da tutto questo».
A proposito di Biennale, Simone Leigh rappresenterà gli Stati Uniti alla rassegna di Venezia del 2022: si tratta della prima volta per una donna afroamericana.
«Il padiglione americano è sempre stato abbastanza sorprendente. Fin dal 1993 quando ospitò Louise Bourgeois, francese trapiantata negli Stati Uniti. Il caso di Simone Leigh è in linea con la necessità di aprire alle voci altre. Dopo il tempo di Trump, che ha rappresentato una cultura ipernazionalista, viene data nuova cittadinanza alla comunità afroamericana».