Cultura
settembre, 2021

Il cinema iracheno sta vivendo un vero e proprio rinascimento

Case di produzione, collettivi di attori, registi tornati dall’estero. Tra produzioni tv internazionali e film a Venezia come Hanging Gardens, apologo sulla perdita dell’innocenza

Ahmed Yassin è seduto sulla sponda del fiume affluente Diyala, e guarda il piccolo Hussein, mentre il buio cala lentamente sul paesaggio mesopotamico intorno a loro: non c’è un rumore, dopo che l’assistente alla regia Wareth Kwaish ha chiesto a tutta la troupe di restare in stand by. Si avverte solo un gracidare insistente di rane, e, come un basso continuo, il pulsare degli insetti del fiume. In lontananza, il lamento solista di un bufalo saluta il giorno che muore, prima che il sole tramonti oltre la linea del Tigri.

Tutti attendono che si faccia nero intorno, per dare il ciak a una delle scene più importanti di “Hanging Gardens”, il nuovo film di Ahmed Yassin Al-Daraji, prodotto da Huda al-Kadhimi di Ishtar Iraq production e finanziato, oltre che dal ministero della Cultura iracheno, anche dall’Arab Found of Arts and Culture (Afac) di Beirut. I quindici adolescenti maschi che fanno da comparsa siedono intorno al fuoco e si godono la poesia della notte sul fiume, non senza la stranezza di essere pagati a giornata sul set, solo per godere di questa bellezza.

Solo l’attore protagonista, Hussein Mohamed Khalil, che interpreta il dodicenne Assad, ha molte più cose da fare, sotto la supervisione del regista Ahmed Yassin, ma ci ha preso gusto: «Al mattino mi hanno tagliato i capelli e adesso Ahmed mi sta spiegando come devo esprimere sentimenti di tristezza e sorpresa», rivela sorridendo dolcemente.

Di sorprese ce ne sono tante su questo set, a partire dalla trama del film, selezionato al Festival di Venezia per la sezione “Final cut”: è una storia dove la perdita dell’innocenza, la storia dell’occupazione dell’Iraq e delle sue guerre, ma anche dell’instabilità attuale e delle rivendicazioni di pieni diritti civili dei più giovani, si annodano intorno a uno strano oggetto del desiderio, una sexy doll. Ahmed Yassin lo spiega con passione, dopo avere girato un’altra scena in una discarica vicino Baquba, a sud di Baghdad: «Nel film il piccolo orfano Assad, durante una giornata passata in una discarica, trova, in un sacco di rifiuti provenienti da una base americana, una sexy doll. Nel volto così vero ed espressivo della bambola, riconosce l’immagine di una madre possibile, quella che non ha mai conosciuto. Le dà un nome, Salwa, e se la porta via, la nasconde, la protegge». Come questo sentimento evolverà è dato sapere solo alla visione del film, ma certo è che questa strana presenza crea scompiglio nella comunità locale, oltre che nel cuore di Assad. «Abbiamo scelto una storia fortemente simbolica per raccontare l’Iraq oggi», rivela Wareth Kwaish, filmaker e assistente alla regia di questo film: «Abbiamo voluto fortemente tornare, nonostante grandi difficoltà. Fare cinema qui ha il sapore della scoperta e della conquista».

Fatima Al-Rubai'y, attrice

Wareth Kwaish e Ahmed Yassin Al-Daradji, trentenni, sono due giovani filmaker iracheni nati durante l’occupazione americana dell’Iraq: formati all’università di Baghdad sono partiti l’uno per Parigi, l’altro per Londra, dove sono diventati professionisti. Ma non hanno la velleità di restare in Europa: per entrambi, questo è il momento di raccontare il proprio Paese di origine, e di scommettere sulle immense potenzialità di un luogo che ha tanto da raccontare e che, dopo una buona stagione di cinema professionale durante l’era che precedette l’avvento di Saddam Hussein, è sprofondato nel buio e nell’oblio.

La renaissance del cinema iracheno e anche della sua produzione televisiva è cosa recente e risale agli ultimi dieci anni: in occasione della nomina di Baghdad a Capitale Araba della Cultura 2013, un’iniziativa della Lega Araba che fa parte del programma per le capitali culturali dell’Unesco, il dipartimento del Cinema e del Teatro del ministero della Cultura iracheno aveva investito circa 12 miliardi di dinari iracheni (circa 10,3 milioni di dollari) per sostenere l’industria cinematografica, compresa la produzione di cortometraggi, lungometraggi e documentari.

L’evento eccezionale aveva spinto il governo locale a progettare anche infrastrutture culturali, come un grande complesso da 87mila metri quadrati che avrebbe dovuto ospitare un teatro dell’opera da 1.500 posti e un edificio per le prove dell’orchestra sinfonica nazionale. Ma tutti i progetti di ristrutturazione del ministero della Cultura, musei, biblioteche pubbliche, teatri e gallerie d’arte, e tutti i piani di nuova costruzione (19 statue, monumenti e memoriali in tutta Baghdad tra i quali era prevista la costruzione di monumento alto 21 metri progettato nel punto di piazza Firdaus in cui si trovava la statua di Saddam Hussein rovesciata nel 2003) sono stati solo promesse. E anche il teatro Al-Rasheed di Baghdad sta risorgendo dalle ceneri solo adesso e non con fondi pubblici.

Una delle ragioni di queste promesse non mantenute è stata l’ascesa delle milizie dello Stato Islamico e la caduta del Paese – dal 2014 al 2017 – in una condizione di incertezza e mancanza di sicurezza senza precedenti. Ma adesso, un nuovo vento di cambiamento è in atto.

Hikmat Muttashar Majeed Al Beedhan è il direttore del dipartimento di Cinema all’Accademia d’Arte di Baghdad e ha aperto anche la prima grande casa di produzione cinematografica della capitale, “Art City”, che è un vero cantiere di produzioni cinematografiche e televisive. Da 2016 “Art City” ospita il festival internazionale di corti “3 by 3” per valorizzare i talenti locali e creare un’occasione di scambio con i colleghi stranieri: «Dagli anni ’40 fino al 2012 abbiamo realizzato più di cento film di finzione», dice Al Beedhan: «I registi non professionisti sono stati coinvolti nell’industria cinematografica. Con l’avvento al potere del partito Baath nel 1968, il governo ha costruito molti cinema, ma come in ogni dittatura, ha usato il cinema per i propri obiettivi. Il cinema iracheno comincia oggi ad avere fondi e infrastrutture, complice il successo delle serie televisive, la nascita di studi di animazione, l’interesse di Netflix».


Lo stesso al Beedhan ha appena prodotto una serie tv sulle manifestazioni di piazza dell’ottobre 2019, che ha avuto un grande successo di pubblico sui canali nazionali. Anche una città-roccaforte religiosa come Karbala ha adesso il suo festival cinematografico, l’al-Nahji Film Festival, che è esploso nell’edizione del 2018 con molte pellicole in concorso dedicate ai film sulla campagna di guerra dell’esercito iracheno contro lo Stato Islamico. E l’emittente locale Karbala Tv ha un suo studio di animazione, dove vengono costruiti pupazzi in dimensioni naturali da animare in 3D.

A Baghdad, la sede degli studios del “Melon City Show”, un programma televisivo comico iracheno diffuso anche su YouTube con milioni di followers e creato dal comico Ali Fadel, è il tempio della commedia irachena per l’industria dell’intrattenimento, una sorta di Zelig locale. «Melon City è la traduzione letterale di un proverbio iracheno che indica un luogo senza rispetto per la legge, dove tutti fanno quello che vogliono: lo utilizziamo per descrivere in sintesi una realtà in cui non c’è organizzazione e non c’è controllo, soprattutto nella società, perché non c’è un governo efficace», spiega Ali Fadel, ammiccando da sotto le lampadine intermittenti del suo studio. «Qui noi facciamo satira su tutto e tutti: questo spiega perché siamo molto amati ma anche perché, sia i politici che i religiosi, sia le milizie di ogni appartenenza, ci rivolgono costanti minacce».

La critica non troppo velata alla società è il pane quotidiano anche del regista Nias Latif che nel 2021 ha finito di girare la sua novantesima serie televisiva, “Mina’s hotel” nella città di Suleymania, nel Nord dell’Iraq. Qui si gira artigianalmente, in una villa in periferia, circondata da un giardino, dove la crew e il cast, asserragliati per settimane, si consolano con cene interminabili a base di pollo e riso, cucinati sul fuoco all’aperto. «Nella nostra commedia raccontiamo lo scontro tra generazioni, in modo sottile e divertente: madri e padri che non capiscono più le figlie e i figli che vogliono rifarsi il naso, che si fanno i selfie, che vogliono viaggiare: siamo un Paese in bilico tra la tradizione e la modernità, e i modelli culturali oggi sono del tutto diversi», sottolinea il regista.

Proprio nel Nord del Paese, lì dove è ambientato “Mosul”, uno dei film che hanno trainato l’ultima stagione cinematografica su Netflix e che racconta la storia recente dell’Iraq nella città-cuore dello Stato Islamico, si compie una rivoluzione inaspettata. Marwa, Haitam e Ahmed, dopo la sconfitta dello Stato Islamico hanno creato un collettivo di attori, filmakers, sceneggiatori e, con l’aiuto del noto blogger “Mosul Eye”, lo storico Omar Mohammad che in quegli anni rivelò al mondo la quotidianità della città e che oggi vive in regime di protezione internazionale in Europa, stanno iniziando a girare il loro primo cortometraggio, con l’aiuto di Yad Deen, regista curdo-britannico ritornato nel Paese da alcuni anni per aprire la sua casa di produzione “SceneItAwards” e valorizzare le splendide location montane del Nord Iraq con la benedizione del governo locale. Sulle rive del Tigri, in un ristorante all’aperto di nuovo pieno di gente che fuma narghile e sigarette, sullo sfondo la ruota panoramica e i battelli che solcano il fiume, il giovane sceneggiatore di Mosul Ahmed al Najm si infiamma e lancia il suo messaggio al mondo: «Noi gridiamo attraverso il cinema. Vogliamo raccontare la storia di tutte le persone che venivano uccise ogni giorno a Mosul e nessuno sentiva la loro voce, come mia madre, mia sorella e la mia più cara amica che è morta davanti ai miei occhi. Dateci la possibilità di fare conoscere il nostro messaggio, per favore, perché in questa terra possiamo fare moltissimo».

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