L'impegno per l’ambiente. Per i diritti delle donne, anche nel calcio. La causa Lgbtq+. Incontro con l’attrice che interpreta Antonia, nella serie tv tratta dal film di Ozpetek “Le fate ignoranti”: «Quel gruppo è libero, fuori lo siamo un po’ meno. Ma la creatività deve rompere le regole»

Sarà pure un luogo comune ma se le donne sono multitasking, Cristiana Capotondi è una vera donna. Nel senso che riesce a fare dieci cose insieme a differenza degli uomini, che si concentrano su un compito per volta. «Più che multitasking, direi che le donne sono “multi-distrazione”. Cominciano e poi si perdono. Invidio gli uomini invece, la loro capacità di attenzione totalizzante. Non so se esiste la reincarnazione, ma il prossimo giro lo farò da maschio, sono sicura», scherza l’attrice, giacca nera e pantaloni grigi, mentre sorseggia un caffè e assaggia una crêpe in un bistrot francese di Roma nord. Se non fosse alle prese con la promozione della serie tv “Le fate ignoranti” di Ferzan Ozpetek di cui è protagonista (otto episodi su Disney+), tratta dall’omonimo film del 2001 del regista turco, di certo Capotondi non si annoierebbe. Organizza workshop nelle aziende e nelle università con “Io sono”, l’associazione da lei fondata insieme al suo compagno, l’imprenditore Andrea Pezzi, e da Carlo De Matteo, creata per diffondere i valori dell’Umanesimo nell’era digitale. Segue come capo delegazione la nazionale di calcio femminile, siede nel consiglio di amministrazione del Centro Sperimentale di cinematografia e fa parte di One Ocean Foundation, che si occupa di formazione, prevenzione e sostegno di attività per la salvaguardia dei mari.

Vent’anni fa il film “Le fate ignoranti” raccontò il contrasto tra il mondo borghese della protagonista, Antonia (Margherita Buy), e la famiglia allargata in cui il marito, Massimo, era approdato per seguire il suo amante Michele (Stefano Accorsi). Mettendo in scena senza tabù vita, amore, tradimenti, morte. Che effetto le fece il film?
«Un effetto liberatorio. Fino a quel momento il mondo transgender, che associavamo al gioco di artisti come David Bowie e Renato Zero, era lontano dalla vita quotidiana. Per la prima volta in Italia, questo film integra quell’universo nella vita di tutti i giorni, lo avvicina a tutti perché ne racconta il lato umano. Ferzan mise in scena il proprio universo, il palazzo del quartiere Ostiense, a Roma, in cui abitava con i suoi personaggi, narrò una storia che gli avevano raccontato. Mi piacque molto, mi aiutò a fare un passaggio di vita importante».

Il film ha contribuito alla causa Lgbtq+?
«Sì, anche senza volerlo. Ha narrato in maniera affrescata, pennellata, sussurrata, relazioni che neanche si immaginavano. La storia di una donna, Antonia, il dramma della perdita del marito, il fatto che ci fosse un altro amore, di altra natura, con un altro mondo. Su questi temi non c’era letteratura cinematografica né immaginario collettivo».

Nella serie tv lei interpreta Antonia e suo marito Massimo è l’attore Luca Argentero. Come è cambiato il suo personaggio vent’anni dopo?
«Antonia è sempre borghese ma più morbida, riesce a passare da un ambiente all’altro con maggiore fluidità».

Cosa pensa della parità di genere?
«Ho tantissimi amici e amiche, coppie omosessuali di lunghissimo corso, solide e punti di riferimento, con dinamiche molto simili a quelle eterosessuali. In molti casi i problemi sono gli stessi: le difficoltà di relazionarsi per molti anni con la stessa persona, crescere insieme, innamorarsi da adulti, perdersi e ritrovarsi. I temi sono universali».

Come è cambiata la società italiana?
«Negli anni ha promosso maggiori tutele nei confronti di persone che fanno scelte diverse da quelle mainstream, in qualche modo le ha protette. Giustamente, non voglio essere fraintesa. Questo percorso, però, ha tolto un po’ di ironia su questi temi, ma lo penso anche per le donne. Se uno dice: “Ma guarda ‘sta zoccola!”, non vuole per forza intendere il significato letterale dell’espressione, magari stigmatizza un atteggiamento di chi cerca di conquistare l’altro per motivi di business, chi ha un atteggiamento rapace nei confronti della vita. Oggi non si può dire. Le fate ignoranti invece, che sono fate ma soprattutto ignoranti, hanno questa spudoratezza. Tanto che a un certo punto il protagonista si trova a dire: “A me piace proprio il pisello hai capito?”. Ecco, non so se oggi sarebbe possibile dire una cosa del genere al di fuori di una cornice in cui è consentito. Quel gruppo è libero, fuori siamo meno liberi. Forse abbiamo perso un po’ di libertà e ironia».

Il diktat del politicamente corretto nuoce alla spontaneità.
«La creatività deve rompere le regole. Se però oggi domina il politicamente corretto, se la comicità non riesce a rompere le regole perché è condizionata, su quale terreno può muoversi un comico? Quest’anno, ad esempio, il film che ha vinto l’Oscar, “CODA – I segni del cuore”, mette in scena la storia di una famiglia che rientra in pieno nella categoria della diversità. Sono entrati in vigore con forza i criteri premianti dell’Academy: non saprei dire se si tratta del film più bello, non li ho visti tutti. Di sicuro l’originale francese, “La famiglia Belier”, era molto più bello. Forse qualche anno fa “CODA” non avrebbe vinto».

Con Andrea Pezzi state insieme da più di 15 anni. Qual è la sua idea del rapporto di coppia?
«È il luogo della crescita, in cui ci si sostiene, si è molto critici, severi, ma si costruisce insieme. Quando scegli una persona lo fai per delle caratteristiche, per qualità e talenti che vorresti acquisire. Ogni tanto mi accorgo di dire delle cose e di essere l’altro. E viceversa».

E il tradimento?
«È una forma di fragilità. Può accadere di incontrare un’altra persona, certo, ma si rompe il patto di lealtà. Non si tratta solo di sesso, per me non è l’aspetto più interessante di una relazione. Ma se c’è un coinvolgimento più ampio, occorre riflettere su cosa non va all’interno della coppia. In ogni caso è l’evidenza di uno stato di crisi, da cui si può uscire se si ha la forza. Oppure ci si perde, ma non può essere un modus operandi».

Dunque non è per il poliamore?
«Assolutamente no. In una donna produce schizofrenia pura, forse per un uomo è più fattibile. Di sicuro, donne e uomini sono molto diversi. Non mi fraintenda, sono a favore dei pari diritti».

La legge Cirinnà sulle unioni civili, in vigore da quasi sei anni, riconosce alle coppie omosessuali e a quelle eterosessuali alcuni diritti garantiti dal matrimonio. Eppure molta strada resta da fare.

«La legge Cirinnà non fotografa tutto quello che accade nel nostro Paese. Molti Comuni, ad esempio, riconoscono diritti, così come le sentenze di alcuni giudici fanno giurisprudenza. In ogni caso, la nostra Costituzione meravigliosa dice tutto quello che c'è da dire, basterebbe rileggere l’articolo 3 sul principio di uguaglianza. Non serve scannarsi sul ddl Zan».

A proposito di diritti, lei è capodelegazione della Nazionale femminile di calcio. Dal 1 luglio anche le calciatrici della serie A diventeranno professioniste. Cosa vuol dire?
«È un passaggio epocale. Vuol dire anzitutto maggiori tutele per le calciatrici, che diventeranno lavoratrici a tutti gli effetti. E poi per molte madri potrebbe essere un’opportunità per investire sullo sport delle figlie. E questo potrebbe aumentare la base di tesserate e ci equipara ad altri Paesi europei che sono più avanti di noi. In Spagna, le partite più importanti fanno 90mila spettatori».

Lei pratica sport? È vero che avrebbe voluto fare la calciatrice?
«Nuoto, mi piace molto camminare in campagna. Il calcio? Mi sarebbe piaciuto, se non avessi i piedi fucilati! Sarei stata un terzino sinistro alla Maldini e Cabrini, oppure alla Elisa Bartoli che gioca nella Roma, il numero 13 della nazionale femminile».

Negli ultimi anni ha intensificato il suo impegno per i diritti delle donne. È suo il ruolo di Lucia Annibali nel film “Io ci sono” di Luciano Manuzzi tratto dall’omonimo libro dell’avvocatessa sfregiata con l’acido su mandato del suo ex, nel 2013. È stata protagonista della serie tv “Bella da morire” per la regia di Andrea Molaioli, sul tema del femminicidio, e di “Nome di donna” di Marco Tullio Giordana. Sente la responsabilità?
«Come donna del mio tempo sento che c'è una sorta di guerra di genere. Il punto fondamentale è culturale: bisogna insegnare agli uomini che i modelli femminili di riferimento fino a vent'anni fa vanno aggiornati, non valgono più. È difficile che un uomo di 40 anni, con una madre che non ha mai lavorato perché si è dedicata alla famiglia, comprenda a fondo la necessità di una donna di compiere un percorso di realizzazione professionale».

A proposito di lavoro, lei fa parte della giuria dell’Accademia della Stella Negroni che sostiene i giovani videomaker italiani, per realizzare la versione 4.0 del Carosello. Come se la passano oggi i giovani creativi?
«Se la passano bene perché hanno strumenti tecnologici pazzeschi, riescono con pochi mezzi a costruire uno showreel personale per presentarsi. Tuttavia, gli aspetti tecnici tendono a prevalere sui contenuti. Come consigliere d'amministrazione del centro sperimentale mi impegno affinché questi ragazzi si formino dal punto di vista culturale. Vedano i classici del cinema, leggano i classici della letteratura, della filosofia, della psicologia. Leggano romanzi, giornali, confrontandosi con le vecchie generazioni».

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