Geopolitica del cinepanettone. Sarà un caso, sarà un’illusione ottica, ma quest’anno i migliori film delle feste vanno in coppia. E poiché non hanno più nulla a che vedere con i “film di Natale” di una volta, sembrano disegnare una mappa abbastanza precisa del confuso panorama attuale. Sempre più diviso tra titoli destinati al grande pubblico e altri che invece puntano a un numero più ristretto di spettatori, ma informati e fedeli. Come evidenziano i due titoli più abissalmente lontani usciti a fine anno. Diversi in tutto fuorché nel tempo record di gestazione.
Il primo naturalmente è “Avatar: la via dell’acqua” di James Cameron, 13 anni di lavorazione per un lancio planetario, costi mostruosi come gli incassi e un cast di star irriconoscibili perché ridisegnate al computer. A cui risponde “Il Cristo in gola” di Antonio Rezza, film “no budget” che di anni ne è costati addirittura 18 ma fa il tutto esaurito con proiezioni mirate sui suoi numerosi adoratori (in trent’anni di teatro con Flavia Mastrella, Rezza si vanta di non aver mai preso sovvenzioni pubbliche). E dal punto di vista estetico, con il suo bianco e nero scolpito e la sua geniale colonna sonora, è uno degli oggetti più inclassificabili prodotti in Italia da diversi anni in qua.
Un Vangelo riveduto e corretto, benché mai blasfemo, girato fra Matera (come quello di Pasolini), Anzio e Ostia Antica, ma così apocrifo che alla fine svolta in zona “Edipo re”. E vede Gesù fabbricarsi la croce da solo, o battibeccare con un Ponzio Pilato doppiato dallo stesso Rezza (il suo Gesù non parla mai, urla solamente). Mentre la strage degli innocenti, idea strepitosa, è rappresentata usando solo bambolotti appesi a delle funi o lanciati in aria. Trovata che potrebbe sembrare facilmente dissacrante ma alla fine genera un autentico brivido d’angoscia.
Naturalmente non parliamo di numeri, copie o incassi. Su questo terreno la gara l’ha già stravinta Avatar sin dal primo weekend. Nessuno del resto poteva dubitarne, anche se il nuovo episodio della saga diretta da James Cameron, non ha la novità e la potenza visionaria del primo, che traduceva attese epocali nel linguaggio e nelle novità tecnologiche del miglior cinema fantastico.
Il pianeta Pandora, con i suoi umanoidi altissimi e caudati, non è più un regno incantato aggredito dalla rapacità dei terrestri, ma il teatro di una lunga e non sempre imprevedibile guerra per buona parte sottomarina. Le affascinanti ibridazioni tra gli umani invasori e il pacifico popolo dei Na’Vi sono ormai un fatto acquisito. La magia del motion capture, che ridisegna alieni color carta da zucchero sui corpi di attori in carne e ossa, non sorprende più come una volta. E soprattutto non suscita lo stupore profondo che provocava nel 2009, quando quegli umani “rigenerati” dentro alieni alti tre metri sembravano tradurre in termini spettacolari anche i vertiginosi progressi scientifici dell’epoca (protesi, bioingegneria, chirurgia plastica, eccetera), o per dirla più semplicemente il sogno sempre più diffuso di rinascere in un altro corpo.
Niente di tutto questo. “Avatar: La via dell’acqua” è in tutto e per tutto un sequel (già previsti anche il numero 3 e il numero 4). Dunque moltiplica, dilata, dilapida le idee del film originario. Compresa quella, centrale, che faceva del pianeta Pandora una sorta di divinità vivente, un luogo in cui ogni specie, indigeni, piante, animali, è mentalmente connessa alle altre. Dopo aver creato un universo complesso e coerente, Cameron insomma lo sfrutta come un parco a tema, secondo la celebre definizione coniata da Scorsese per i film sui supereroi. Un peccato, ma anche un segno dei tempi.
La sovrabbondanza crescente dell’offerta spinge infatti a produrre oggetti sempre più riconoscibili, dunque vendibili. Come ci ricorda l’altra strana coppia delle feste, quella formata dal re Mida americano Steven Spielberg e dal campione di un cinema d’autore finanziato e protetto dallo Stato che ormai non esiste più, il grande regista russo Aleksandr Sokurov. Del film diretto dal primo, il magnifico e autobiografico “The Fabelmans”, parliamo diffusamente in altre pagine. Ma vale la pena ricordare che solo registi con il prestigio e il potere di Spielberg oggi possono permettersi di alternare progetti molto personali (e lungamente meditati) ad altri più vicini alle esigenze dell’industria, come del resto prova tutta la sua lunghissima carriera.
Mentre un habitué dei grandi festival come Sokurov, classe 1951, sempre a Cannes o al Lido con i suoi film (“Faust” vinse il Leone d’oro a Venezia 2011), oggi si trova stretto tra due fuochi. Da una parte, in quanto russo, si è visto rifiutare da Cannes il fosco, azzardato, bellissimo “Fairytale - Una fiaba”, presentato successivamente a Locarno e in questi giorni nelle sale italiane. Dall’altra, sempre più in urto con il regime di Putin, gode di margini di manovra ormai molto limitati in un Paese che pur avendo ufficialmente abolito la censura nel remoto 1993 di recente ha iniziato a far sparire buona parte del suo stesso cinema “non allineato”. Impedendo non solo la distribuzione di titoli stranieri sgraditi come ad esempio, per ragioni evidenti, la black comedy “Morto Stalin se ne fa un altro” di Armando Iannucci (inglese malgrado il nome), ma la circolazione e talvolta la produzione stessa di film dai contenuti “pericolosi”, o semplicemente diretti e interpretati da personaggi che si sono espressi contro la guerra all’Ucraina.
Ci saranno altri film di Sokurov dopo “Fairytale”? Ce lo auguriamo. Nel frattempo conviene non perdersi questa fantasticheria metafisica allestita rielaborando immagini d’archivio, con Stalin, Hitler, Churchill e Mussolini che aspettando di incontrare il Padreterno battibeccano tra loro rimpallandosi accuse gigantesche e beffarde invidie personali («che bel taglio il suo cappotto!»). Sospesi in un limbo che sta tra le carceri di Piranesi e la Divina Commedia illustrata da Doré. Sfondo astratto e insieme orribilmente concreto di uno scontro fra tiranni, qui visti come vecchi meschini e di scarsa memoria, responsabili di una guerra che ha provocato milioni di morti. E ci ricorda come la potenza del digitale possa servire anche a rivisitare la Storia, non solo a creare universi fantastici alla “Avatar”. Anche se operazioni culturali di questo impegno sembrano destinate a farsi rare in un sistema che concede sempre meno spazio ai veri autori cinematografici e tende a sottrarre loro progressivamente ogni potere artistico e morale.
Come provano altri due film nelle sale in questi giorni, costruiti sul richiamo non dei registi ma degli scrittori a cui sono ispirati. “Le otto montagne”, diretto dai belgi Felix Van Groeningen e Charlotte Vandermeersch (quelli dello straziante “Alabama Monroe”), dal romanzo omonimo di Paolo Cognetti, insolita coproduzione italo-fiamminga con Alessandro Borghi e Luca Marinelli protagonisti.
E il controllatissimo “Living”, regia del sudafricano Oliver Hermanus su copione del grande scrittore anglo-nipponico Kazuo Ishiguro, cui si deve l’idea di rifare un classico di Akira Kurosawa, “Vivere”, 1952, ambientandolo nell’Inghilterra di quegli stessi anni. Con un virtuosistico Bill Nighy nel ruolo del protagonista, un grigio burocrate ripiegato nel lutto per la moglie scomparsa e soprannominato Mr. Zombie da una sua giovane collega. Fino a quando, scoprendo di avere davanti a sé pochi mesi di vita, non tenta di dare senso e pienezza alla propria esistenza in un modo che converrà scoprire al cinema.
Due bei film, non esattamente facili, realizzati grazie al nome degli scrittori più che a quello dei registi. Come se per attribuire una patente culturale in più al cinema oggi servisse sempre più spesso la letteratura. E meno male che dalla Francia arrivano due gialli costruiti entrambi con molta sapienza (e qualche colpo di scena di troppo) sull’eterno contrasto fra essere e apparire, ovvero fra il fingere un sentimento e il provarlo davvero, “Masquerade-Ladri d’amore” di Nicolas Bedos (già regista di “Belle Époque”). E “Un vizio di famiglia” di Sébastien Marnier, con l’ormai onnipresente Laure Calamy.
Cosa vogliono e soprattutto cosa “sentono” davvero i belli e dannati Marina Vacth e Pierre Niney, lei escort lui gigolò, impegnati in una doppia truffa sentimentale in Costa Azzurra ai danni dei più anziani Isabelle Adjani e François Cluzet? E se a forza di fingersi innamorati finissero per essere gelosi l’uno dell’altra (menzione d’onore per una Laura Morante inedita e perfida)?
Mentre “Un vizio di famiglia” scava con toni alla Chabrol nel sentimento che dovrebbe legare un padre a una figlia ormai adulta ma mai conosciuta prima, in una vertigine di doppi e tripli giochi che toglie ogni fiducia nel genere umano.
Meno male che lo struggente “Close”, del belga Lukas Dhont, Gran Premio della Giuria a Cannes (in sala dal 4 gennaio), ci riporta al sentimento purissimo e indubitabile di due ragazzini, Léo e Rémy, destinati a non sopportare lo sguardo dei coetanei. Un film che non solo invoca ma esprime una tolleranza nuova, con uno smalto visivo e una verità d’accenti davvero fuori dal comune. Coraggio, le feste stanno per finire. Potremo tornare a essere ottimisti.