Due amiche separate dalla differenza di classe. Due vite messe in crisi da leggi ingiuste. Due Paesi divisi dall’ignoranza. In una lunga conversazione con la scrittrice franco-marocchina che pubblica in questi giorni “Il passaporto verde”. Dalla newsletter de L’Espresso sulla galassia culturale araboislamica

Zineb Mekouar mi accoglie parlando italiano e mi fa strada in un salottino di Villa Medici: la giovane scrittrice franco-marocchina è a Roma, nella sede dell’Accademia di Francia, per una residenza dedicata alla stesura del suo secondo romanzo. Il primo, accolto con grande interesse nel Marocco dove è nata e cresciuta come in Francia, dove si è trasferita a diciott’anni, esce in Italia in questi giorni per le edizioni Nord nella traduzione di Giuseppe Maugeri. Il titolo, “Il passaporto verde”, rimanda al colore che rende all’improvviso la protagonista, la ricca marocchina Kenza, una cittadina di serie B rispetto agli amici con cui ha passato gli anni dell’università a Parigi: loro infatti possono sfoggiare la copertina rosso bordeaux del documento della Comunità europea. Costretta a tornare all’improvviso a Tangeri, Kenza riallaccia il rapporto con il nonno – i genitori sono morti quando era bambina – e con l’amica d’infanzia Fatiha: molte cose però sono cambiate, negli anni che le due ragazze hanno trascorso ai due lati del Mediterraneo. E molte altre, più o meno drammatiche, cambieranno nel corso del libro. Come Mekouar racconta in questa lunga, appassionata intervista.

 

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“Il passaporto verde” è un libro costruito a strati, va sfogliato come una cipolla. Molti romanzi racconterebbero solo il rapporto tra le ragazze, e sarebbe già abbastanza per un romanzo di successo. Invece qui c’è più spessore. Partiamo dal primo strato. Tra le ragazze c’è un’amicizia conflittuale, minata da una grande invidia: è colpa della differenza di classe, o c’è qualcosa di Elena Ferrante?
«Me lo hanno chiesto in molti, e solo allora mi sono decisa a leggere il primo volume, sei mesi dopo aver finito il libro: non lo avevo fatto prima. E in effetti è vero che nel mio libro c’è l’amicizia tra due ragazze che sono separate da tutto: una viene dall’aristocrazia marocchina, l’altra è figlia della domestica. L’amicizia le rende quasi sorelle, “soeurs de coeur” quando sono piccole: e anche se Kenza, che ha paura del buio, dorme nel letto e Fatiha per terra accanto a lei, non si rendono conto della differenza tra di loro. Le bambine non sanno nulla dell’ipocrisia sociale, degli strati, delle classi, delle regole del gioco, quelle regole informali che nessuno ha scritto ma tutti conoscono».

 

Però quando Kenza torna in Marocco, anche se hanno il passaporto dello stesso colore, il contrasto tra le due donne è evidente.
«In realtà le differenze si fanno notare già mentre crescono: da adolescenti, man mano che si accende il desiderio, si rendono conto sempre più della rigidità sociale che le opprime. Da bambine giocano insieme con le farfalle, ma quando crescono Kenza invita gli amici e Fatiha serve il rinfresco e poi torna in cucina. Kenza non osa guardarla negli occhi: ma tutti questi non detti si mettono tra di loro, e le allontanano. Però volevo anche mostrare che malgrado l’invidia, l’odio, la gelosia, l’amicizia mantiene comunque una sua dinamica. Quando sono da sole, anche da grandi, ci sono momenti in cui le classi sociali non hanno importanza. Anche se Kenza è di una classe più alta, è Fatiha che ha il potere. Kenza è più fragile di Fatiha, che la vita ha costretto a diventare forte».

 

Il secondo piano è quello della cronaca, a cui si rifà il titolo italiano sul “Passaporto verde”: rimanda a una legge francese del 2011, proprio nel periodo delle primavere arabe.
«In quell’anno in Marocco gli islamisti hanno avuto la maggioranza alle elezioni. Ma per fortuna non sono riusciti a fare nulla perché il re, Mohamed VI, è liberale e attento ai diritti umani. Nel libro ho cercato di raccontare gli ultimi anni di regno di suo padre, Hassan II, e il cambiamento: nei primi anni, Mohamed VI ha cambiato il codice di famiglia, la Mudawwana. Intanto, in Europa l’estrema destra cominciava a crescere, con la crisi economica e la paura degli stranieri. In Francia nel 2011 c’è stata una circolare che è durata solo sei mesi, perché è stata dichiarata incostituzionale. Il ministro dell’interno di Sarkozy, Claude Geant, aveva deciso che gli studenti stranieri, una volta ottenuta la laurea, dovevano andarsene: non era più consentito il cambio di status, da studente a lavoratore. La circolare è nata perché in Francia gli studenti stranieri più numerosi erano i marocchini, seguiti da cinesi e algerini. Ma la cosa paradossale è che a darmi l’idea del romanzo è stata un’amica americana: ero a cena con amici e lei continuava a piangere, dicendo che era costretta a tornare negli Stati Uniti: “L’unico modo per restare sarebbe sposare il mio compagno, che è francese, ma io non voglio!”. La circolare in quel momento non mi riguardava, ma mi sono detta, “prova a immaginare, vivi per cinque anni in un paese e poi da un giorno all’altro ti dicono “vattene””: ho pensato che fosse una storia da raccontare».

 

Le altre leggi che decidono la vita delle protagoniste sono in Marocco: dove i rapporti prematrimoniali sono vietati, così come l’aborto.
«In effetti le leggi sono uno snodo centrale della trama, le leggi e il contesto politico: per questo mi piace il titolo italiano sul colore del passaporto. Per me tutto è politico, la politica è personale. Se vivi in un paese in cui le leggi vietano l’aborto, come succede a Fatiha quando il suo ragazzo la lascia, la tua storia diventa politica. Le leggi retrograde influenzano tutte le persone e tutta la loro vita. Qualcosa sta cambiando in Marocco: proprio in questi giorni ci sono il ministro della giustizia e il parlamento che vogliono cambiare le cose, modernizzarle riguardo ai diritti umani, le leggi sul matrimonio, i rapporti prematrimoniali, l’aborto. Ci riusciranno? Ci arriveremo per tappe? Non lo so, ma quel che è certo è che c’è voglia di cambiamento, e molte persone nella società civile e tra gli artisti si impegnano per questo».

 

Come è stato accolto il suo libro in Marocco?
«Era una cosa che mi preoccupava molto, perché uno dei temi è la lotta contro l’ipocrisia sociale, quindi non potevo permettermi di cadere io stessa nell’ipocrisia mentre scrivevo. Ho deciso di non censurarmi e per questo ci sono momenti crudi:  se scrivi della violenza sul corpo delle donne, quella violenza bisogna mostrarla. Senza esagerare, in maniera neutra ma dura. Sono stata molto felice di vedere che l’accoglienza è stata buona: mi hanno invitato spesso a parlare, e il romanzo è entrato nella selezione di libri dall’accademia reale. È anche questo un segno che in Marocco la popolazione è aperta e le istituzioni vanno verso la modernità».

 

Un altro strato molto evidente sono i diritti delle donne, il loro comportamento disinibito (come nei “Racconti del sesso e della menzogna” di Leila Slimani) e la proibizione dell’aborto: come “L’evento” di Annie Ernaux, il suo libro fa vedere cosa succede quando non è legalizzato.
«Mentre scrivevo pensavo di occuparmi di un problema del Marocco che doveva essere risolto. Ma poi il libro è uscito proprio mentre gli Usa decidevano di abrogare la legge federale, e in vari Stati europei l’estrema destra attaccava le leggi che lo permettono. Quindi mi sono ritrovata a raccontare una realtà che non è Medio Evo ma che può tornare nel futuro di tutti: i diritti che riguardano il corpo delle donne sono sempre in gioco, si possono sempre perdere. Da noi anche le donne violentate sono obbligate a non abortire, e ci sono mille aborti clandestini al giorno, ci sono neonati gettati nella spazzatura, ci sono donne che, come Fatiha, non potendo andare in clinica si mettono nelle mani delle fattucchiere e finiscono per morire. In più, una donna come Fatiha viene rifiutata dalla società due volte, perché è evidente che ha fatto sesso fuori dal matrimonio. Ho voluto far vedere in maniera intima e umana cosa significa vivere in Paesi che ti possono mettere in una situazione di fragilità estrema, soprattutto se sei già fragile economicamente. Le più toccate dalle leggi retrograde sono le donne che non hanno i soldi per sottrarsi. Nel libro Fatiha può arrivare a un medico perché lo conosce Kenza, quindi le classi sociali sono iperimportanti».

 

Il quarto strato è quello della percezione degli arabi: che in Europa sembrano tutti uguali, con donne che stanno lì ad aspettare il san Giorgio occidentale che le salvi perché da sole non sono in grado…
«Una domanda fondamentale del libro è se in Marocco oggi ci si può emancipare: e non riguarda solo le donne, perché una società che sottomette le donne è una società in cui l’uomo è legato a un significato tossico della mascolinità. Se c’è più uguaglianza, anche gli uomini hanno meno obblighi e legami: l’uomo porta i soldi a casa, l’uomo non piange… Quanto al rapporto dell’Europa con gli arabi, quando sono arrivata a Parigi a 18 anni mi ha colpito che mi dicessero: “Ah, vieni dal Marocco? Io ho un cugino algerino”, o “sono stata in vacanza in Tunisia”. Qualche anno dopo negli Usa mi dicevano “Vivi a Parigi? Io l’anno scorso sono stata in Italia, o in Spagna…» Ma la prima cosa è più grave perché Francia e paesi del Maghreb hanno una storia comune. La Francia non può permettersi di confondere questi paesi perché i francesi sono andati lì a colonizzarli. E poi sono tornati per cercare lì le persone che servivano per ricostruire la Francia dopo la guerra. Se in Francia confondi Francia e Belgio è uno scandalo, e invece… E proprio questa ignoranza spiega la violenza sociale, perché ci sono persone che sono francesi ma si sentono incomprese nella loro storia».

 

Già distinguere Medio Oriente e Maghreb in Europa è difficile…
«Si fanno confusioni assurde: a me parlano del burqa, quando il Marocco è un paese mediterraneo, Tangeri somiglia più a Granada che a Baghdad. Proprio per questo il titolo del mio libro in francese è “La poule et son cumin”, “La gallina e il suo cumino”…»

 

Cosa vuole dire?
«Il senso è che hai tutto quello che ti serve, hai avuto fortuna, hai fatto tombola. Si dice quando ti sposi, significa che hai trovato un buon partito. Ma è un’espressione che si usa solo in Marocco, l’ho scelto per questo: è arabo dialettale, è un’espressione che non si incontra in Egitto, Tunisia o Algeria. Perché questo libro non parla del Maghreb, non parla del mondo arabo: parla del Marocco. Fare confusione è pericoloso: quando in Francia sentivo parlare di un islam “incompatibile con la République” ne avevo paura anche io. Se fossi cresciuta in Francia, circondata da quelle immagini dell’islam, io avrei paura del mondo arabo. Ho scritto questo romanzo perché la letteratura è un luogo neutro in cui si può parlare di ogni cosa senza cadere subito nelle contrapposizioni, nelle etichette, nelle gabbie mentali».

 

Vogliamo parlare della lingua? I personaggi del libro parlano soprattutto marocchino, ma tu scrivi in francese…
«La lingua in questo libro è un personaggio vero e proprio, mostra la lingua la pluralità del Marocco. Ci sono persone che parlano in francese, altre in arabo dialettale (quello classico si parla solo a scuola), ci sono berberi, ebrei, moltissimi spagnoli. E sempre di più si parla inglese: tutti i genitori che possono permetterselo mandano i figli in una scuola straniera. Anche questo è un segno delle classi sociali. Kenza parla a Fatiha in francese perché la nonna le ha detto di non parlare darija: e non si accorge nemmeno che Fatiha le risponde solo in dialetto, anche se poi a scuola in francese Fatiha è la prima della classe».

 

Per finire, molti avvenimenti della trama sono legati all’orgoglio e alla vergogna. Mi ha colpito perché in Europa si dice che gli arabi abbiano un forte senso dell’orgoglio, mentre la vergogna è un modo per tenere a bada le donne, non solo nel suo libro e non solo in Marocco…
«L’orgoglio dei marocchini è mediterraneo: è quel modo di essere forte e solare che ho trovato anche in Spagna, Italia o Grecia. Ma anche il patriarcato fa parte della cultura mediterranea tradizionale, dove le donne dicono al figlio: “No, tu sei un ragazzo e in cucina non ci devi entrare”. Nel libro ci sono due personaggi importanti, il nonno e la nonna di Kenza. Lui rappresenta il Marocco della tradizione, lei la modernità; vuole che sua nipote sia libera ma è lei stessa sottomessa al marito, e questo per Kenza è difficile da accettare. Io sono cresciuta tra donne così: molto forti, con un carattere deciso eppure incapaci di essere totalmente libere. In Marocco c’è una generazione di giovani donne scrittrici: siamo state educate da donne forti e da uomini che volevano che noi vivessimo quasi come gli uomini. Però le nostre madri erano comunque sottomesse a qualcosa, e noi abbiamo voluto andare un passo più avanti. Ma se abbiamo potuto farlo, è grazie a loro. Non c’è una letteratura maschile o femminile, c’è una letteratura sola, ma oggi quella letteratura la scrivono sempre più spesso le donne: che scrivono in maniera molto vera, cruda, senza tabù. Questo vuol dire che abbiamo coraggio, che abbiamo superato tutti i divieti inconsci che fermavano le nostre madri e le nostre nonne, a cominciare appunto dalla vergogna».

 

E il prossimo romanzo?
«È molto diverso dal primo. Spero di finire qui a Roma la prima stesura per poterne poi parlare con l’editore. Al centro c’è un bambino di 10 anni e il suo rapporto con la madre, minato da un segreto familiare. Nel libro c’è un nonno, c’è il contrasto tra città e campagna, c’è la natura e soprattutto c’è la siccità: la mancanza d’acqua li obbliga a emigrare, e c’è un parallelismo tra il cambiamento climatico e quell’amore materno inaridito da una siccità interiore».

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