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Cultura
gennaio, 2024

Quando Natalia Ginzburg entrò in Parlamento

La scrittrice Natalia Ginzburg
La scrittrice Natalia Ginzburg

Lontana da ideologia e propaganda, la grande scrittrice fu eletta negli anni Ottanta per la Sinistra indipendente. E ora un libro riunisce i suoi discorsi in Aula e gli scritti civili

«Penso che occorrerebbe abbandonare il linguaggio deviante dei politici, dei giornali, e cercarne un altro, più immediato e più chiaro. Se c’è una cosa in cui gli scrittori possono un po’ rendersi utili, forse è proprio questa: cercare un altro linguaggio per la politica»: in un’intervista rilasciata nel luglio 1983, all’inizio del suo primo mandato di parlamentare, Natalia Ginzburg (1916-1991) sintetizzò con semplicità il fine della sua scelta. Ce n’era voluta d’insistenza per convincerla ad accettare. Una volta eletta, assolse l’impegno di deputata della Sinistra indipendente con un’assiduità che non conobbe pause. Quasi tutte le mattine telefonava di buon ora a Vittorio Foa, il consigliere più ascoltato, e programmava la giornata.

 

Eletta di nuovo nel 1987 nella X legislatura, proseguì fino alla fine un lavoro per cui confessava di non essere affatto tagliata. Non per falsa umiltà ripeteva di considerarsi una della tante persone che di politica non capivano nulla. Tra intellettuali e scrittori sussisteva, secondo lei, una distinzione netta: «Gli intellettuali – scandì severa in un’inappellabile massima – si muovono nella zona del pensiero, gli scrittori, i romanzieri o i poeti si muovono nella zona dell’immaginazione». Non è detto che i romanzi dovessero ambire a essere utili alla vita pubblica, dovevano dispiegarsi ubbidendo ad una “libera inutilità”. In tutto Natalia pronunciò nell’aula di Montecitorio cinque discorsi, più qualche brevissimo intervento. Ora, insieme a coevi articoli pubblicati su L’Unità e a una ristretta selezione di interviste legate alle questioni emergenti nei dibattiti più spinosi, sono leggibili in un piccolo libro che ha la preziosità di un vademecum, curato da Michela Monferrini per le Edizioni di Storia e Letteratura: “Una cosa finalmente lieta – Scritti civili e discorsi politici” (pp. 148, € 12).

 

Manifestazione contro i missili a Comiso, 1984

 

Basterà estrarne qualche esemplificativo passaggio per verificarne la coerenza con i propositi enunciati. Mai deduzioni ideologiche o enfasi propagandistica. Lo stile ha un timbro asciutto e necessario, costruito com’è esponendo sentimenti senza patetismi, attingendo parole dal lessico quotidiano. Il discorso più esteso lo tenne il 7 aprile 1984 ed ebbe a tema cruciale la richiesta che restasse invariato il prezzo del pane. Per ragioni di tempistica tattica era imperativo che durasse addirittura quarantacinque minuti. Così la neodeputata ebbe modo di dipingere un nostalgico affresco di un’Italia povera e casta. Tratteggiò la sobrietà di un’economia domestica e il silenzio di borghi intatti e marginalizzati da un mitizzato progresso. Prese le mosse da una frase attribuita a Gianni Agnelli, che si era detto preoccupato della lentezza di un’irrinunciabile modernizzazione: «In Italia, ciò che deve morire, muore molto lentamente». Lei era di parere opposto: nulla avrebbe dovuto estinguersi. Il nuovo avrebbe dovuto fiorire dalle radici più antiche di un Paese che era stato «quieto e mite» e stava diventando «teatro di atroci violenze», pur serbando «le sue qualità essenziali di equilibrio, di sensatezza e di coscienza civile», insofferente di distruzioni imposte dall’alto e nemico di devastazioni ambientali. Il socialismo di ieri era purtroppo tra le cose morte in fretta: non c’era stato nemmeno il tempo di piangerlo. La visione che discendeva dal rattristato rimpianto mischiava i lineamenti idealizzati di un passato in realtà doloroso e durissimo con l’amara percezione di un angosciante decadimento etico. Parecchi colleghi, pure Foa, dissentirono. La periodizzazione non funzionava . In questo senso la qualifica di corsara che Sandra Petrignani affibbiò alla Ginzburg nel titolo della sua ricca biografia (2018), per le affinità che le parve rinvenire con certe uscite del Pier Paolo Pasolini appunto corsaro, non sono completamente fuori fuoco. Natalia però rifiutava il grido di una scandalizzata rabbia. Propendeva per una rilevazione pacata, voleva portare in primo piano cose e situazioni. 

 

I funerali di Enrico Berlinguer a Roma, nel 1984

 

«Non ama, e ritiene ipocrita il lessico del politicamente corretto, che usa parole che le persone non parlano realmente e dunque lascia quelle stesse persone indietro, isolate, inascoltate», osserva Monferrini. Era allergica alla astratte generalizzazioni. Non impiegava la parola «masse» perché in essa sparivano le fisionomie dei singoli che la componevano, i deleteri loro vizi e le «piccole virtù». Di Enrico Berlinguer abbozzò un ritratto tutto incentrato sulle qualità personali: «timido», «schivo», segnato da «una tristezza forse nativa, ma cresciuta e maturata nella conoscenza del vero». Non trapela un’affettuosa comprensione autobiografica? Di Gorbaciov dichiarò che le sarebbe piaciuto conoscerlo di persona: il fatto che lui esistesse di per sé la rallegrava. Attualizzare sbrigativamente una lezione come quella impartita da Natalia Ginzburg deformerebbe certe scomode quanto sincere riflessioni. Il suo pacifismo assoluto non ignorava che la condizione atomica aveva assunto una dimensione «nuova e sterminata». Come cacciare questi rischi di impotente frustrazione, come cacciarli con le ragioni della politica? Quando si trattiene sui movimenti in voga avanza correzioni di un’inoppugnabile franchezza: «Io non sono femminista, o meglio non condivido del femminismo l’idea che le donne siano sempre e comunque superiori agli uomini. Non mi sento di condividere questa idea razzista, con tutte le mie forze la rifiuto» (1987). Ancora una volta si ritraeva dal generalizzare: «Perché in verità le donne dentro di sé sono anche un po’ uomini e i giovani sono anche un po’ vecchi, e soprattutto invecchiano con una rapidità straordinaria» (1983). Si poteva esprimere in termini più elementari il nucleo delle teorie del gender, tirate in ballo oggi con sofisticati argomenti? Ad alimentare questo materno e battagliero buonsenso s’intravedono gli anni del confino, sofferti con stupefacente energia accanto a Leone. La memoria incorporava valori che non cessava di trasmettere. Quando esplose una polemica originata da un’insegnante che voleva, in nome di un asettico laicismo, si togliessero i crocifissi da ogni aula scolastica, Natalia intervenne con un articolo corsaro: «Il crocifisso fa parte della storia del mondo. I modi di guardarlo e non guardarlo sono […] molti. Oltre ai credenti e non credenti, ai cattolici falsi e veri, esistono anche quelli che credono qualche volta sì e qualche volta no. Essi sanno bene una cosa sola, che il credere, e il non credere vanno e vengono come le onde del mare» (L’Unità, 22 marzo 1988). Il senso delle cose allontanava le dispute della teologia. Un poeta, Elio Pecora, che le fu amico, ha di lei tramandato una di quelle uniche frasi che non tollerano chiose: «Una sera che si parlava del morire lei si disse sicura che sarebbe rinata. E che sarebbe rinata identica». 

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