Cultura
24 ottobre, 2025Articoli correlati
In occasione del Festival delle Idee, la musicista racconta in prima persona il suo rapporto con lo strumento, la gestione delle emozioni e l’incontro creativo tra diverse forme d’arte
Io vivo il talento come un dono. È familiarità e naturalezza, predisposizione fisica e psicologica, inclinazione intellettuale e creativa. Ma è sia daimon che demone. Possedere un talento significa avere a che fare con qualcosa che può infiammarti di passione ma anche bruciarti e fare del male. Bisogna saperlo gestire, investire, innaffiare. È una responsabilità verso se stessi e verso gli altri. Quando si sceglie un’esistenza composta da gesti artistici e performativi, come la mia, quello che si vuole fare è lasciare un messaggio. Per riuscirci, bisogna poter raccontare qualcosa e questo è possibile solo attraverso l’esperienza e l’immaginazione, muovendosi al di fuori della propria comfort zone. Così la narrazione sarà più vera, sincera e completa.
Ho cominciato a suonare il pianoforte a tre anni e mezzo. Tra i quattro e i cinque anni ho iniziato a fare i primi concerti pubblici, quindi tutto è cominciato come un gioco nel gioco. Non avevo la capacità di rendermi conto che quello sarebbe diventato il mio mestiere e che ciò che facevo avesse un’imponenza emotiva così grande. La mia famiglia si è sacrificata molto per starmi accanto. Non erano musicisti, quindi abbiamo dovuto imparare insieme a capire e gestire questa mia inclinazione. Non so quando ho compreso davvero il valore di ciò che stavo facendo, ma forse è successo la prima volta che ho suonato con un’orchestra: avevo dodici anni. Vedere il direttore e tutti quei musicisti lì per suonare con me mi ha aperto gli occhi. Mi sono resa conto che stava accadendo qualcosa di grande nella mia vita. Il pianoforte è uno strumento solista, ti abitua alla solitudine. Eppure, in quel momento ho percepito il senso della condivisione. Mi sono detta: “Devo fare del mio meglio”. Ero molto emozionata.
Proprio per questo, ho sentito il bisogno di creare strumenti di supporto per i giovani. Ho fondato un mio metodo per aiutare altri artisti a sviluppare una consapevolezza emotiva e psicofisica. Perché, anche se oggi si parla molto di mental coaching, manca ancora una vera attenzione al benessere interiore di chi fa arte. Le emozioni sono la nostra forza ma anche la nostra fragilità. Sono la prova che siamo vivi, che vibriamo, che siamo diversi gli uni dagli altri. Non siamo macchine: siamo esseri sensibili, unici, vulnerabili. Da questa riflessione è nato il progetto “C# - See Sharp. La palestra delle emozioni”, un laboratorio dove si può allenare l’emotività, proprio come si fa con i muscoli. L’atto performativo deve essere preparato tanto quanto la tecnica. Si può studiare ore un passaggio di Beethoven nella propria stanza, ma quando si sale su un palco cambia tutto. Il corpo reagisce, la mente si attiva, le sensazioni esplodono. Non si può mandare qualcuno “in battaglia” senza che abbia allenato anche la gestione dell’ansia, senza che conosca cosa succede dentro di sé, a livello biochimico e psicologico. Io per prima, da piccola, ero completamente travolta dalle emozioni. Suonavo e giravo vorticosamente su me stessa come un Sufi, perdendomi in una specie di trance. Ricordo che mia nonna si spaventava e diceva a mia madre: “Ma questa bambina non sarà posseduta?” E forse, in un certo senso, lo ero: posseduta dall’emozione, dall’energia della musica.
Con il tempo, ho capito che l’equilibrio sta nel mezzo. Ho incontrato artisti che vivono l’estremo opposto, ovvero un eccesso di controllo, e anche quello è un problema: entrambe le condizioni vanno riconosciute. Ancora oggi, mi agito prima di un concerto e va bene così. Ogni volta, è come intraprendere un breve viaggio verso nuove versioni di me stessa. Il corpo si prepara a qualcosa di grande: tachicardia, secchezza della bocca, mani fredde. Conoscere questi meccanismi mi aiuta a non esserne vittima. Ho imparato a osservare il mio stato emotivo, a capire se sono in iperattivazione o ipoattivazione, e a intervenire con piccoli esercizi di respiro e centratura. Noi siamo organismi biopsichici: ogni impulso mentale genera un effetto fisico. Imparare a dialogare tra questi due piani cambia la qualità della performance e della vita stessa. Per me tutto questo è diventato un modo per curare e ascoltare l’emotività, per farle spazio e darle voce.

Credo moltissimo nell’unione e nella fusione delle arti. La musica è stata il mio primo linguaggio, ma la curiosità di incontrare altre forme d’arte - come teatro, danza, pittura, scultura, videomapping - mi ha spinta a creare dialoghi e unire mondi diversi in un simposio di bellezza. In questo scambio ho appreso moltissimo, anche su me stessa. Una delle esperienze più forti è stata l’incontro con Pinuccio Sciola, lo scultore delle pietre sonore. Ho passato mesi nel suo “parco sonoro” a San Sperate, in Sardegna, imparando a far cantare le pietre con delicatezza. Dalla pietra dura usciva un canto soave, quasi femminile, ottenuto solo con una carezza. È stata una vera e propria lezione di gentilezza e ascolto profondo: ho capito che la forza non sta nell’impatto, ma nella sensibilità del gesto.
Questa duplicità si riflette nel pianoforte: è uno strumento a percussione - quindi imponente, pesante, rigido - ma è anche composto da corde, che richiamano leggerezza, vibrazione e dolcezza. Dieci pianisti suoneranno lo stesso pianoforte in altrettanti modi diversi, perché la voce del musicista nasce dal corpo e dall’immaginazione, non dalle dita. La cosa più importante, infatti, è il primo suono: quello che rompe il silenzio e rivela ciò che si vuole trasmettere. È fragile e forte allo stesso tempo.
Il Festival delle Idee di quest’anno ha come temi centrali proprio il talento e l’immaginazione. Quest’ultima è un elemento fondamentale, capace di forgiare la nostra voce: il nostro cervello non distingue tra vissuto e immaginato e da questo nasce la creatività. Ho contribuito a tutto questo con un dialogo tra musica e poesia. Il verso poetico custodisce ritmo, sonorità, respiro. Le parole, come le note, portano dentro una vibrazione. Per questo motivo, ho collaborato con Franco Arminio, un poeta contemporaneo che parla al cuore con semplicità e profondità. Durante la nostra performance, il pianoforte ha risposto al richiamo di versi, accenti, silenzi. È stato un incontro in cui la musica si è trasformata in parola e la poesia in suono. È qui che il talento diventa un dono: nel momento in cui incontra quello degli altri».
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