Cultura
27 ottobre, 2025Tre uomini a zonzo per il Veneto tra sbronze e ricordi. Per raccontare l’Italia di oggi, “Le città di pianura” torna alla struttura del “Sorpasso”
LE CITTÀ DI PIANURA
di Francesco Sossai, Italia, Italia-Germania, 100’
Tre uomini e una Jaguar. Il ragazzo, serio, colto, un po’ rigido, si chiama Giulio e viene da Napoli ma non ha l’accento. I due adulti, veneti in purezza, sono Doriano detto Dori e Carlobianchi, tutto attaccato. Giulio studia architettura, Dori e Carlobianchi, cinquantenni ad alto tasso alcolico, battono il Veneto su quel vecchio macchinone di lusso comprato coi soldi di qualche affaruccio illegale quando facevano gli operai, prima della crisi del 2008.
Giulio insomma è un giovane tutto d’un pezzo che con la regione in cui studia ha un rapporto soprattutto culturale. Loro sono andati in frantumi tanti anni fa e rimettono insieme i pezzi bevendo e vagando. Ma di quelle terre conoscono l’anima, i segreti, il sottosuolo pulsante. Insomma hanno un sacco di cose da insegnare a quel ragazzo, e così lui a loro. Anche se perché inizino a capirsi Giulio dovrà attraversare una serie di piccole grandi prove in 48 ore di sistematica, liberatoria, irresistibile débauche.
Sì, è la struttura del “Sorpasso”, ma l’idea geniale di Francesco Sossai (Belluno, 1989) è usarla per raccontare l’Italia di oggi ovvero il Veneto, che con il suo impasto di passato e presente, distruzione e mercificazione, è l’ideale per illuminare quanto resta del Belpaese. E ciò che si agita, spesso invisibile, dentro chi ci vive. Anche perché “Le città di pianura” sviluppa l’intuizione iniziale con una vitalità, una coerenza, un amore per i personaggi (ergo per gli spettatori) a dir poco rara da queste parti.
Questione di metodo: il secondo film di Sossai nasce da un lento stratificarsi di vagabondaggi e osservazioni, dunque nasconde a meraviglia mille idee dentro i suoi magnifici protagonisti. Di metodo e di lucidità: Sossai, che nelle interviste non cita solo Ferreri, Petri, Rosi e Lizzani, ma Celati, Ghirri, Piovene, Trevisan, sa benissimo cosa vuole raccontare. Come sa che per farlo deve spalancare le porte all’immaginazione trasformando le idee in volti, corpi, voci, atmosfere. Ed ecco questo film colto e popolare, affollato e profondo, esilarante e malinconico, come una volta. Trainato da immagini calibratissime e da tre attori meravigliosi come l’ipnotico folk-rock-blues veneto di Krano che li accompagna.
Dei tre protagonisti infatti ci si innamora in un lampo, ma era già una grande idea riunire un purosangue di matrice teatrale come Sergio Romano (Carlobianchi), il frontman del Teatro degli Orrori, Pierpaolo Capovilla (Dori), e l’ottimo Giulio/Filippo Scotti, già al centro di “È stata la mano di Dio”. Forza cinema insomma, c’è tanto da fare: a forza di nasconderla, l’Italia è tutta da scoprire.
AZIONE! E STOP
Pupi Avati si addice a Guillermo Del Toro. Che ha inserito “L’arcano incantatore”, del 1996, tra i titoli in programma all’American Film Institute Festival di Los Angeles, curato quest’anno dal messicano. Buona scelta: spesso trascurato, questo horror ecclesiastico ambientato nel XVIII secolo è tra i migliori Avati di sempre.
Non perdete “La tenerezza”, ovvero “L’attachement”. Diretto da Carine Tardieu, dominato da una Valeria Bruni Tedeschi trattenuta e potente, è uno dei più bei film francesi dell’anno. Ma come spesso accade quando sono in gioco piccole distribuzioni, malgrado il grande successo in casa, non ha molti schermi a disposizione.
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