Cultura
8 ottobre, 2025A 40 anni da "In the American West", la Fondation Henri Cartier-Bresson di Parigi espone per la prima volta in Europa l’intera serie fotografica. Un viaggio negli Stati Uniti invisibili, tra donne e uomini dimenticati dal sogno americano
È il 2 aprile 1978 quando la serie “Dallas” debutta sul piccolo schermo. Un successo inatteso che porterà alla realizzazione di 14 stagioni e alla messa in onda in circa 90 Paesi. Un fenomeno planetario. Le dinamiche di una facoltosa famiglia texana coinvolta nello spietato Oil Business diventano parte della storia della televisione. Stessa sorte di lì a poco per un’altra serie rivale: “Dynasty”. Una soap opera definita da molti “glitzy”, ovvero sfarzosa, scintillante. Ancora una volta americana, ancora una volta implicata nell’Oil Business, questa volta però ambientata in Colorado. L’immaginario di un’America patinata di bellezza e affari entra nelle case.
Mentre si registrano le puntate su quel West dove gli Ewing di Dallas e i Carrington di Denver sembrano esserne l’unico volto, una controversa serie di ritratti fotografici firmata Richard Avedon spezza la dorata e mitica visione dell’Ovest - e in fin dei conti anche di quell’America made in Hollywood - spingendosi nel suo profondo, nella sua dura ed autentica quotidianità. “I miei soggetti sono persone che nessuno guarda. Ma sono loro che fanno muovere il mondo”. Così, con la stessa eloquente semplicità dei suoi scatti, Avedon presenta il progetto “In the American West” nel 1985.

Oggi, a 40 anni dalla sua storica pubblicazione, la Fondation Henri Cartier-Bresson di Parigi (grazie al progetto curatoriale del direttore Clément Chéroux) ne espone per la prima volta in Europa la serie completa. La mostra odierna “Richard Avedon. In the American West” (fino al 12 ottobre) si rifà a quei 110 scatti selezionati all’epoca per la celebre edizione Abrams. Non solo, in esposizione anche materiali inediti come Polaroid preparatorie, provini di stampa annotati personalmente dall’artista e corrispondenze private per un viaggio attraverso tutte le fasi della sua realizzazione. E per celebrare questo anniversario, la stessa casa editrice propone la ristampa del volume ormai da tempo fuori catalogo.
Proprio in quel 1978 sempre in Texas, l’allora direttore dell’Amon Carter Museum - Mitchell A. Wilder, commissiona a Richard Avedon un progetto fotografico sul West. Il fotografo con studio nell’Upper East Side e famoso per i ritratti alle celebrities e le copertine di ‘Vogue’ ma anche in prima linea per questioni civili come quella del Vietnam, è molto chiaro: “Non posso garantire cosa troverò, ma la mia visione non è romantica”. La sua non sarà quindi una narrazione paesaggistica o autocelebrativa del West che ha forgiato il mito nazionale della frontiera e l’identità degli Stati Uniti. Ora l’antologia americana finisce per arricchirsi di un’ulteriore narrazione con una diversa prospettiva, “non più autentica di quella dell’Ovest di John Wayne” come lui stesso dichiara, ma sicuramente non più invisibile. Sa infatti che gran parte della forza silenziosa del Paese non vive sulle coste ma nell’entroterra e nell’ombra.

Assicurati i finanziamenti, durante le primavere e le estati dei cinque anni successivi, Avedon viaggia col suo team “nelle Grandi Pianure e le Montagne Rocciose, verso ovest fino alla Sierra Nevada, a nord fino a Calgary in Canada, e a sud fino al confine con il Messico”, ricorda l’assistente Laura Wilson. In quel territorio così vasto ma così scarsamente abitato, l’obiettivo è andare alla ricerca di villaggi e centri di aggregazione dalle fiere ai rodei, ai siti di trivellazione fino alle miniere. Sono lì i volti che sta cercando, di quell’America di tutti giorni che cavalca o subisce le leggi della natura e del mercato dove il lavoro ti trasforma, ti inghiotte o ti riscatta in una continua lotta per la sopravvivenza. Quell’America di “donne e uomini che praticavano lavori usuranti, umili, persone spesso ignorate o lasciate ai margini”.
Come rendere visibili le loro storie? Attraverso una mise en scène semplice e una tecnica fotografica rigorosa dove il paesaggio viene eliminato e rimpiazzato da uno sfondo completamente bianco da cui emerge la figura umana. La luce solare diretta è esclusa per evitare così l’ingombrante e fuorviante gioco di luci e ombre. Avedon si pone volutamente sempre a sinistra dell’obiettivo, mai dietro, in “un intimo faccia a faccia” col soggetto. Niente si interpone tra loro due, quello spazio viene riempito da un gioco di sguardi, da un intercalare di domande e silenzi per cogliere in un clic “ciò che il soggetto fa spontaneamente, chi è veramente”. La fisicità partecipa alla centralità dell’immagine così come la postura e gli indumenti quotidiani, spesso da lavoro o del giorno di festa. Ritratti che non sono semplicemente volti o corpi. Sono immagini che finiscono per raccontare storie di vita e il loro prevedibile destino.
Quello che sarebbe diventato un prezioso contributo alla storia della fotografia scatena una stampa non favorevole anzi, in molti casi ostile. Si parla di un “Ovest triste”, di una serie fotografica che “manca di decoro”, insomma “di un’immensa frode”. L’America si sta invece guardando allo specchio e punta il dito contro la sua immagine riflessa e contro chi ha avuto il coraggio di metterla di fronte. Avedon sembra aver così tradotto con la fotografia il messaggio auspicato circa cinquant’anni prima dal connazionale Sinclair Lewis in occasione del ritiro del Premio Nobel per la Letteratura. Un invito, un appello per una rappresentazione più onesta dell’America con la sua complessità e le sue contraddizioni a costo di indebolirne miti ed illusioni radicate.
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