Cultura
19 novembre, 2025I Quaderni in mostra. Convegni, corsi di laurea, riletture. L’America riscopre il pensiero e la vita del filosofo marxista. Un atto di resistenza politica contro l’ondata autoritaria
Sotto la teca, la copertina rossa mostra i segni del tempo: qualche sgualcitura, qualche macchia di umidità. Studiosi e curiosi si chinano come davanti a una reliquia laica, cercando di seguire quella grafia minuta, fitta, ordinata. La data è 8 febbraio 1929. “Note e appunti”, si legge: l’inizio di un progetto che avrebbe composto uno dei classici più influenti del pensiero politico-filosofico moderno.
Per la prima volta, una selezione dei Quaderni del carcere di Antonio Gramsci sbarca in America, accolta dall’Istituto Italiano di Cultura di New York. Mentre fuori il clima è ancora elettrico per la vittoria di Zohran Mamdani, il giovane socialista democratico che ha promesso di cambiare il volto della metropoli. Una coincidenza che suona come un segno dei tempi. «I quattro quaderni esposti fanno luce sul fatto che anche un intellettuale comunista guardava negli anni Trenta agli Stati Uniti come a un laboratorio di una rivoluzione; in particolare al cosiddetto fordismo, che oltre a cambiare il modo di produrre, stava cambiando i bisogni stessi del lavoratore, creando un uomo nuovo», dice Claudio Pagliara, neodirettore dell’Istituto, che in collaborazione con la Fondazione Gramsci di Roma ha organizzato lo storico prestito: «Oggi, in un contesto profondamente diverso, l’intelligenza artificiale impone riflessioni simili: che uomo nuovo uscirà dalla rivoluzione che sta avvenendo inarrestabile sotto i nostri occhi?». Un quesito che sembra parlare del destino stesso del lavoro, come già Gramsci intuiva.
Fino al 19 novembre sarà possibile vedere da vicino oltre al primo, anche il Quaderno 22 (Americanismo e fordismo), il Quaderno 25 (Ai margini della storia. Storia dei gruppi sociali subalterni) e il Quaderno A di traduzioni, mentre tutti i trentatré scritti saranno consultabili in versione digitalizzata. Il fatto che siano oggi a Park Avenue dimostra quanto Gramsci avesse avuto ragione: compilati in una cella fascista, pensati per “far qualcosa fϋr ewig”, eterna, continuano a parlare al mondo.
Nello studio di “americanismo” e “fordismo” il tentativo di comprendere gli Stati Uniti, privi di passato contadino, come fucina di modernità; Gramsci capiva che il modello americano di produzione di massa era una strategia del capitale, costruita per massimizzare il profitto, ma si chiedeva come utilizzare quegli stessi metodi di organizzazione e di efficienza per liberare invece che alienare il lavoratore. Proprio a quegli appunti, rivisti nel 1934, è stato dedicato il convegno “America in Gramsci, Gramsci in America”, ospitato alla Casa Italiana Zerilli-Marimò della New York University e contiguo alla mostra. «In questo momento storico, negli Stati Uniti un convegno su Antonio Gramsci, così come le iniziative dedicate a Pier Paolo Pasolini (nel cinquantenario dell’assassinio), non sono solo iniziative accademiche, ma un autentico atto di resistenza politica contro l’ondata autoritaria che si sta abbattendo sulle università», ha ribadito a L’Espresso Stefano Albertini, direttore della Casa Italiana e docente presso il Dipartimento di Italianistica della New York University. Il riferimento è ovviamente agli attacchi di Donald Trump contro gli atenei. Un’analisi condivisa anche da David Forgacs della NYU, co-organizzatore insieme a Kate Crehan della City University of New York. Parlare del pensatore comunista negli Usa del tycoon, spiega, «è estremamente attuale, perché ci offre una chiave per leggere un mondo che scivola verso destra. Pensiamo alle grandi industrie, anche mediatiche: il Washington Post, per esempio, è nelle mani di Jeff Bezos. Con questa concentrazione del potere mediatico è difficile trovare spazi per una comunicazione alternativa di sinistra». Soprattutto quando i Ceo si prostrano al potere della Casa Bianca. Da qui il parallelismo: Gramsci scriveva in prigione sotto censura, con una lingua “esopica” necessaria per eludere il controllo. «Naturalmente la realtà di oggi non è la stessa», precisa Forgacs: «Ma viviamo in un contesto in cui, se qualcuno manda un messaggio WhatsApp a favore della Palestina, rischia conseguenze». Ecco perché leggere Gramsci in America, o meglio leggere l’America attraverso le categorie gramsciane, è non solo utile, ma necessario.
Al momento negli Stati Uniti esistono soltanto due corsi monografici dedicati al pensatore sardo. Ma l’eco è innegabile nella sinistra progressista, soprattutto tra i giovani che hanno sostenuto il trentaquattrenne Zohran Mamdani (nato in Uganda da genitori di origini indiane) portandolo a diventare il primo sindaco musulmano di New York, dopo aver battuto un mostro sacro come Andrew Cuomo. «Dubito che abbia letto Gramsci. Se un giorno lo incontrassi, glielo chiederei», scherza Forgacs: «Ma molti dei ragazzi che hanno votato per lui, tra cui diversi miei studenti, lo hanno letto. La loro generazione non si limita a disperarsi per ciò che accade alla Casa Bianca, invece dice gramscianamente: “dobbiamo organizzarci, avere un piano alternativo, costruire un movimento”». Delusi dal Partito Democratico, «sono convinti che qualcosa vada rovesciato, trasformato».
Oggi Gramsci, riflette il professore, non ci offre una chiave di lettura per opporci a Trump, ma ci aiuta a capire le ragioni della sua vittoria. «A differenza di Kamala Harris, ha parlato direttamente alla classe operaia americana, quella preoccupata per il costo della vita, per le bollette, per l’aumento dei prezzi». Come ha fatto Mamdani. «Ma Trump, a differenza di Mamdani, una volta eletto non ha proposto soluzioni concrete a queste preoccupazioni, a parte i mitici dazi, che dovrebbero proteggere l’economia americana, ma che invece stanno facendo salire i prezzi ai consumatori». Sulla stessa linea corre il pensiero di Marcus Green, segretario generale dell’International Gramsci Society e docente di Scienze politiche al Pasadena City College: il nodo centrale della crisi politica in Usa passa dalla perdita di rappresentanza della classe lavoratrice. «Trump è riuscito a spostare una parte importante dell’elettorato operaio dal Partito Democratico al Partito Repubblicano», evidenzia quando lo raggiungiamo: «La condizione “subalterna” della classe lavoratrice americana è in gran parte il risultato del fatto che il Partito Democratico non ha saputo affrontare le questioni del lavoro».
Uno dei motivi dell’ascesa del trumpismo è stato, infatti, secondo il professore, il rifiuto del libero scambio, pilastro dell’ordine politico neoliberale dagli anni Ottanta fino alle amministrazioni Clinton e Obama. «Trump si è chiaramente opposto a quel sistema e agli effetti che ha prodotto: la deindustrializzazione, il calo dei salari negli Stati Uniti e la precarizzazione del lavoro». Ma ci sono anche le questioni legate al crollo finanziario del 2008-2009 e la gestione Obama. «È il contesto in cui nacque il movimento Occupy Wall Street. Il governo salvò le banche, mentre milioni avevano perso la casa a causa dei mutui tossici, senza che poi il governo affrontasse in modo adeguato la crisi abitativa derivata». E qui, secondo Green, il pensiero di Gramsci resta ancora un modello operativo: «Direbbe che i subalterni hanno bisogno di organizzazioni indipendenti. Se questo significa creare strutture esterne al Partito Democratico, capaci di rappresentarli davvero, allora è essenziale che esistano». E aggiunge: «Pensate al Tea Party che è riuscito a spingere il Partito Repubblicano ancora più a destra. Occupy Wall Street, invece, è stato l’inizio di qualcosa di simile per la sinistra, ma non ha avuto lo stesso impatto».
Il Partito Democratico non è un partito di sinistra, spiega. «È moderato e le condizioni in cui vivono oggi i lavoratori non trovano risposte sufficienti nella sua agenda politica». Il mondo progressista potrebbe cercare di virarne la direzione. Figure come Bernie Sanders, Elizabeth Warren, Alexandria Ocasio-Cortez e Zohran Mamdani, «rappresentano, ciascuna a modo suo, un rifiuto del neoliberismo. In questo senso, la categoria gramsciana di egemonia, intesa come guida intellettuale e morale, e come costruzione di un nuovo ordine politico, resta fondamentale per comprendere i cambiamenti in corso nella politica americana».
Green individua nel successo di Mamdani una chiave di lettura profondamente gramsciana. «La sfida sarebbe quella di prendere questo punto di partenza locale e trasformarlo in un progetto nazionale-popolare: cioè costruire un movimento su larga scala, capace di parlare a tutto il Paese». Come ha cercato di fare Sanders. Green ha collaborato con Joe Buttigieg, dell’Università di Notre Dame, cofondatore e già presidente dell’International Gramsci Society (oltre che padre di Pete, l’ex ministro dei Trasporti nell’amministrazione Biden) alla traduzione americana dei Quaderni, pubblicata dalla Columbia University Press. Opera incompiuta. «Morto nel 2019, aveva ultimato solo i quaderni dall’1 all’8, e poi lui e io abbiamo curato insieme il Quaderno 25, pubblicato separatamente». Una lacuna, quella di un’edizione critica, che gli studiosi sperano di poter colmare presto. Nel frattempo, è la destra ad aver preso più sul serio Gramsci, ironizza Green. Se ne è appropriata, ma la sua interpretazione è distorta: in America come in Italia, ha ridotto il concetto di egemonia all’occupazione di istituzioni, università, case editrici, media, per diffondere la propria ideologia. Da questo principio prende le mosse la campagna trumpiana contro il “liberalismo woke”, fondata sull’idea che la sinistra si sia impadronita del mondo accademico. D’altra parte, già nel 2015 J.D. Vance definiva le università “il nemico”. «Da qui nasce anche l’attacco sistematico alle università considerate roccheforti della cultura progressista», continua Green: «Indebolirle significa rafforzare la propria egemonia conservatrice».
Tra gli studiosi più popolari c’è Christopher Rufo che «usa le categorie gramsciane come base teorica per costruire un movimento di destra. L’obiettivo non è il confronto di idee, ma la conquista delle istituzioni e il loro orientamento verso un’ideologia conservatrice». Un uso strumentale e improprio. «Hanno preso un concetto che Gramsci non ha mai formulato in quei termini e lo hanno trasformato in una strategia per consolidare il potere culturale e politico. È la logica alla base della culture war».

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