Cultura
24 novembre, 2025I cospicui tagli ai fondi pubblici, il balletto delle cifre, l’ostilità da parte del governo. Attori, autori, registi, produttori, maestranze raccontano l’agonia del settore. E in molti cambiano lavoro
Cinema in crisi, non c'è ancora domani
Non è facile sbrogliare il pasticciaccio del cinema italiano. Se fosse un film sarebbe “Divorzio all'italiana”, protagonisti su fronti opposti Alessandro Giuli e l'esercito di attori, registi, sceneggiatori, elettricisti abbandonati dal governo Meloni. O forse “Perfetti sconosciuti”, il trionfo dell'incomunicabilità fra tradimenti veri e presunti, riunioni convocate dalla sottosegretaria Lucia Borgonzoni (Lega) con gli addetti ai lavori e, dopo dichiarazioni rassicuranti, smentite con i fatti dal ministro della Cultura (Fratelli d'Italia).
Pochi fatti, in realtà, e molti silenzi. Dopo l'incontro dello scorso giugno, infatti, seguito dall'inedito comunicato sottoscritto da tutte le parti, presagio di una possibile intesa sul futuro dell'audiovisivo, non è accaduto nulla. Un lungo silenzio, fino al taglio previsto nella manovra di bilancio per il Fondo Cinema – 150 milioni nel 2026 (da 700 a 550 milioni), poi 200 milioni l'anno successivo (500 milioni complessivi) – e la protesta dei lavoratori del cinema sul red carpet della Festa del cinema di Roma, lo scorso ottobre. Poi Giuli ha annunciato di aver trovato 100 milioni per attenuare la sforbiciata, salvo essere smentito dalla Ragioneria generale dello Stato (da lui accusata di non essere imparziale) e tornare al punto di partenza. Uno spericolato gioco dell’oca che lascia sul terreno morti e feriti. L'incertezza normativa sul tax credit e sui finanziamenti, infatti, ha portato il cinema italiano alla paralisi, con decine di migliaia di lavoratori disoccupati o sottoccupati, giovani autori e professionisti che fanno ricorso alla NASpI o si cercano un altro lavoro. Inoltre l’Anica, che rappresenta molti produttori, si è detta molto preoccupata e in diverse occasioni ha sottolineato come i tagli possono, come già accaduto vent’anni fa, indurre le produzioni italiane a spostarsi verso i Paesi dell’Est Europa, dove i costi sono più bassi. Con conseguenze catastrofiche per la forza lavoro. Di fronte a questo scenario L'Espresso ha rivolto due domande al ministro Giuli e alla sottosegretaria Borgonzoni: cosa accadrà se la riduzione del Fondo Cinema verrà confermata? Che opinione avete del cinema italiano: è un asset del Paese o un settore parassitario? Purtroppo non abbiamo ricevuto risposta.
Per capire cosa stia accadendo abbiamo raccolto le voci dei lavoratori: autori, attrici e attori, sceneggiatori e sceneggiatrici, produttori e soprattutto delle maestranze, che pagano il conto più salato della crisi. Torniamo sull’argomento a distanza di pochi mesi dalla tavola rotonda che il nostro giornale organizzò lo scorso giugno, coinvolgendo due big: Alberto Barbera, direttore artistico della Mostra del cinema di Venezia; Francesca Comencini, regista e componente del direttivo dell’associazione 100 Autori, che rappresenta con oltre mille iscritti registi e sceneggiatori.
L’attuale presidente, Stefano Rulli, è un grande sceneggiatore. Ha firmato film importanti tra cui “Il portaborse” (1999) di Daniele Luchetti, nonché serie di successo come “The Young Pope” di Paolo Sorrentino. «Il discorso non riguarda solo l’ammontare del finanziamento pubblico. Il tax credit non è un'invenzione italiana ma una modalità che esiste in tutta Europa», afferma. Il problema vero, sostiene, è capire cosa non abbia funzionato nel sistema dello sconto fiscale per le imprese che investono nel settore, che può arrivare fino al 40 per cento dei costi sostenuti sotto forma di credito di imposta. Una agevolazione fortemente ridimensionata dai decreti correttivi interministeriali dell’ultimo anno. «Mica siamo qui a dire semplicemente “dateci i soldi”. Se si sfora sul Fondo Cinema vuol dire che non c'è certezza sui finanziamenti pubblici. Se si comincia un film e poi si conta sul fatto che esiste un bando e poi invece i finanziamenti non ci stanno, bisogna sforare per forza, altrimenti i film non si fanno o si fermano a metà», sottolinea il presidente di 100 Autori. Altro nodo cruciale, lo sviluppo dei progetti. «I finanziamenti sono concentrati sull'idea o sul film realizzato. Ma in mezzo c'è lo sviluppo, bisogna tenerlo presente: un'idea deve diventare un soggetto, un trattamento, una sceneggiatura». C’è anche chi si è approfittato, e non poco, di un sistema farraginoso. Come dimostra la vicenda di Francis Kaufmann, il regista presunto killer di Villa Pamphili accusato di duplice omicidio, che ha ricevuto dal ministero della Cultura oltre 800 mila euro per un film mai realizzati. «È un caso clamoroso, ma c'è un problema più complesso: come si documenta un finanziamento? Bisognerebbe fare controlli dal progetto iniziale del film», conclude Rulli.
Tra gli addetti ai lavori c’è chi invita a ragionare in maniera più articolata. Monica Zapelli, sceneggiatrice di tanti film tra cui “I cento passi” di Marco Tullio Giordana (2000, con cui vinse il David di Donatello) e componente del direttivo di 100autori, affronta il discorso da una prospettiva storica: «Il finanziamento pubblico all'attività drammaturgica inizia nell’Atene del V secolo avanti Cristo. Cosa sarebbe oggi la cultura occidentale se non avessimo avuto la tragedia e la commedia greca?». Quel sostegno pubblico, spiega Zapelli, «si basava su una democrazia che capisce che la cultura forma il cittadino e non c'è democrazia se non c'è cittadino». Poi la sceneggiatrice passa ai numeri della crisi attuale, quelli che il governo preferisce ignorare. «Due sondaggi tra gli iscritti alle associazioni degli autori rivelano che il guadagno medio della categoria registi e sceneggiatori si aggira intorno ai 24mila euro lordi. Se andiamo tra gli under 35 la cifra si dimezza», sottolinea. «Non si tratta di numeri che possono essere associati in nessun modo a una categoria di privilegiati come spesso, invece, veniamo raccontati». Molti sceneggiatori, inoltre, in conseguenza della crisi stanno cambiando lavoro. «C’è il rischio che fare cinema diventi un mestiere per ricchi. Non possiamo delegare a loro il racconto del Paese».
Che il cinema italiano possa ancora funzionare, e funzionare bene, lo dimostra Mario Gianani, produttore, tra gli altri, del pluripremiato “C'è ancora domani” (2023, insieme a Lorenzo Gangarossa per Wildside). Il film, che ha segnato il debutto alla regia di Paola Cortellesi, ha incassato 38 milioni solo in Italia, venduto in 126 Paesi, con due milioni di spettatori in Cina e 800mila in Francia. «Un successo che non si vedeva dai primi anni Duemila con “La stanza del figlio”, Palma d'oro a Cannes», commenta orgoglioso Gianani. Come spiega il successo di questo film? «Nasce dall'autenticità. È riuscito a vincere come Miglior Film Internazionale ai Panda Awards, gli Oscar cinesi. A fare la differenza è stata la capacità di emozionare attraverso storie, linguaggi, volti e paesaggi che portano nel mondo un'idea di cultura tutta nostra».
Un caso, questo, che smonta la narrazione del cinema italiano come spreco di denaro pubblico: «Se le risorse derivanti dal tax credit dovessero ridursi improvvisamente l'impatto sarebbe immediato e molto negativo sulla capacità produttiva e sull'occupazione. Metterebbe in gravissima difficoltà le tantissime imprese sane che sono la spina dorsale del sistema». Sulla questione controlli Gianani è molto chiaro: «Efficienza, trasparenza, controllo e rispetto rigoroso delle norme sono principi inscalfibili. Laddove si sono prodotte distorsioni o truffe, si deve intervenire con la massima severità», aggiunge il produttore, poi avverte: «Gettare un intero settore nel discredito per eventuali violazioni è un grave errore e un atto irresponsabile, specialmente in un momento così delicato».
Gli fa eco Daniela Giordano, attrice, regista e presidente di Unita, Unione nazionale interpreti teatro e audiovisivo, che di recente ha partecipato agli Stati generali dello spettacolo a Officina Pasolini, a Roma. «La manovra è un duro colpo che ridurrà drasticamente produzione e occupazione. Un settore già in crisi con le nuove regole del tax credit che hanno ridotto del 20 per cento le giornate lavorative. Una catastrofe che travolgerà migliaia di famiglie», afferma la presidente di Unita, che lo scorso 10 novembre ha partecipato all’incontro con il ministro Giuli, la sottosegretaria Borgonzoni e il nuovo direttore generale cinema del MiC, Giorgio Carlo Brugnoni: «Ci hanno rassicurato sul loro impegno. Il ministro si è speso molto per dirci che il cinema è un asset produttivo che vuole continuare a garantire», continua Giordano: «Tuttavia i soldi prima sono stati tolti, poi sono stati annunciati 100 milioni che, si è scoperto, erano fondi già assegnati, perciò non utilizzabili, e ora ne spuntano altri 100. La realtà è che al di là delle intenzioni e dell'impegno che ci promettono, per trovare i soldi bisogna avere la coerenza di fare scelte drastiche a tutela della creatività, delle imprese e dei lavoratori italiani. E bisogna dire la verità. Le produzioni straniere, soprattutto americane, sono le uniche che finora non hanno mai visto la garanzia dei soldi pubblici messa a rischio. E questo da parte di un sedicente governo sovranista è surreale».
Nel frattempo si alza la protesta di chi di solito viene ascoltato poco o niente: macchinisti, elettricisti, attrezzisti, falegnami. Sono loro, probabilmente, a pagare il conto più salato. Da vent’anni Dario Indelicato fa il montatore e il digital imaging technician, il tecnico che supervisiona i processi di elaborazione delle immagini digitali. È il portavoce di Siamo ai titoli di coda, movimento spontaneo delle maestranze del cinema. Sciorina i suoi numeri, cronaca di un disastro annunciato. «Da un'indagine della scorsa primavera, oltre il 75 per cento dei lavoratori delle troupe risultava in disoccupazione. E nel periodo di massima produttività, da maggio a fine agosto, erano circa 16 produzioni attive in tutta Italia». Oggi, secondo i loro calcoli, ce ne sono 60, ma è un dato ingannevole: «I progetti che normalmente si facevano in sette-otto settimane oggi si sono dimezzati. Si sono abbassati anche gli stipendi settimanali perché non ci sono risorse». Anche tra loro in molti cambiano lavoro: «So di tecnici super specializzati che fanno i benzinai», conclude Indelicato, che come tanti suoi colleghi ha una famiglia da mantenere: «La crisi tocca tantissimo anche gli attori. Non esistono solo quelli sopra la linea, i protagonisti dai grandi cachet. Ci sono attori che vivono con 9-10mila euro l'anno, li ritrovi a fare i baristi. È ora che scendano tutti dai titoli di testa e vengano ai titoli di coda».
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