Cultura
26 novembre, 2025Articoli correlati
A quarant’anni dalla scomparsa, la scrittrice è protagonista di una vivace riscoperta, in Italia e all’estero. Un’autrice a lei molto legata ne ripercorre l’infanzia. Tra segreti e contraddizioni
Il 25 novembre 2025 saranno 40 anni dalla morte della scrittrice Elsa Morante, che si è spenta nel 1985 a Roma. Nell’ultimo decennio abbiamo visto crescere anche all’estero e presso le nuove generazioni l’interesse per Morante. Dalle ritraduzioni fino allo sceneggiato Rai tratto dal romanzo “La Storia”, la scrittrice sta ancora conquistando nuovo pubblico. Per me però Elsa Morante è prima di tutto la scrittrice preferita di mia madre, che negli anni Settanta si laureò con una tesi su di lei. Da quel momento Elsa è entrata a far parte del mio Dna imponendosi sugli scaffali della libreria familiare. Molte cose si diranno di lei per ricordarla, tante maratone di lettura si preparano in tutto il Paese e numerosi incontri e libri e riedizioni la festeggeranno. Io di Morante ho voluto raccontare una parte poco conosciuta, ma piena di contraddizioni, scoperte e segreti: l’infanzia. Quello che segue è l’estratto di un monologo a lei dedicato.
È il 18 agosto del 1912, sono le 15,30 e siamo a Roma, in via Anicia 7, a Trastevere, dove allora si trovava una saletta d’ospedale dedicata ai parti difficili.
Qui viene al mondo Elsa Morante, la più grande scrittrice del nostro Novecento, anche se lei avrebbe preferito essere chiamata “scrittore”, per non essere confusa con tutte quelle autrici che la critica considerava di serie B.
L’infanzia di Elsa Morante, che vi narrerò, si basa su ciò che la scrittrice ha detto di sé, ciò che ha inventato, amato e odiato della bambina che è stata.
Questa infanzia gloriosa e menzognera comincia dopo la morte di “Antonio”.
Irma Poggibonsi, la madre di Elsa, era un’insegnante emiliana, colta e stimata, che incontrò e sposò nel 1908, Augusto Morante, istitutore siciliano presso il Riformatorio. I due non riuscivano ad avere figli e quindi venne coinvolto nella paternità, ma non nella famiglia, un secondo uomo: Francesco Lo Monaco.
Il primo dei figli morì bambino e Morante ne scrisse dentro al breve racconto “Nostro fratello Antonio”.
Antonio divenne il figlio perduto, il solo veramente elogiato dalla madre. Era infatti nato già “aristocratico” e di fronte a lui, pensato dalla madre come un re, tutti gli altri figli e figlie erano solo plebei, rimasugli e scarti di una “meraviglia” scomparsa.
Davanti alla capacità di rimare d’Elsa, Irma le faceva presente che se Antonio fosse sopravvissuto sarebbe con ogni probabilità diventato un Giacomo Leopardi.
Pare che a due anni e mezzo Elsa abbia composto la sua primissima poesia, in onore di un galletto caduto da una finestra. Mentre a quattro anni sapeva già leggere e presto si mise a scrivere poesie e filastrocche e racconti per i fratelli.
«Ho sognato tutta la notte mia madre, alta alta, vestita di marrone e non aveva simpatia per me», così disse Morante ad Adriano Sofri mentre era in clinica negli ultimi mesi della sua vita.
Che donna era la madre di Morante, Irma Poggibonsi, non è facile ricostruirlo, si possono metter insieme solo pezzi di ricordi, come l’aneddoto del bigliettino raccontato dai fratelli.
Dopo una discussione accesa Morante infilò un bigliettino sotto la porta della camera della madre con scritto “maledetta” e poi passato del tempo se ne pentì e ne infilò un altro con scritto: “benedetta”.
Maledetta la madre che sempre ricorda il fratello “Antonio”, la madre curiosa e opprimente, la madre che fa figli con un uomo che non le è marito; benedetta la madre che l’assiste nei giorni delle febbri, la madre istruita che da giovane scriveva poesie, che cantava l’opera Crispino e la comare per casa.
Il primo quartiere dove Morante visse con la famiglia fu Testaccio e ci rimase fino al 1922.
Testaccio negli anni ’10 era un quartiere ancora povero, verace, il palazzo dove vissero i Morante era un condominio popolare composto da due cortili su cui affacciavano le sei scale per accedere agli appartamenti.
Al centro dei cortili Morante bambina giocava e si riparava sotto l’unico e smilzo albero presente, un “palmizio” oggi diventato piuttosto robusto.
Allora Elsa era già considerata una bambina di genio, che prima degli altri sapeva e prima degli altri capiva. Le altre bambine la corteggiavano a scuola, le promettevano regali, le mettevano nelle tasche del grembiule torroncini o “coccetti”, ma lei riconosceva che agivano solo per interesse.
Gli altri non la amavano, la usavano e basta, del resto nemmeno lei si amava. Avrebbe voluto essere brava nella ginnastica, capace di salti e corse, non avere nessuno spazio tra i denti davanti, avere la pelle “colorita” e le ginocchia sporche di terra, segno indiscutibile di perfezione.
Molte cose, infatti, rendevano la bambina Morante diversa dalle altre e lei le sapeva tutte a partire dal “giradito”, che le era venuto da piccolissima e l’aveva lasciata con l’unghia del pollice quasi quadrata.
E poi “l’incubo”, lo stravolgimento che la aggrediva ogni volta che la febbre saliva e rendeva sua madre ansiosa. Un incubo che era delirio – le formiche a migliaia sul letto – e che faceva ridere i fratelli a causa delle invocazioni insensate e le urla. Loro si buttavano a terra dalle risa e si prendevano a pugni, lei era a letto e vedeva mostri.
A loro restavano i fatti e a lei le fantasie, quelle terribili della febbre e quelle consolanti dei vestiti da dama.
Ogni stoffa vecchia e rattoppata, ogni abito usato che le toccava indossare da bambina, e che era meno interessante rispetto ai pizzi delle altre, lei lo inventava. Diventava un “manto di porpora, guarnito di ermellino”, l’eredità di un nobile parente. Indossava tutto con ardore, sistemava fiocchi sui cappelli, pareva “una cattedrale”, si atteggiava a signora.
Sugli abiti brutti tanti tanti lustrini, sul mondo ovvio e tiepido tante tante storie.
Il primo “uomo” della vita di Morante pare sia stato il figlio della maestra che di cognome faceva Amore e ce l’aveva scritto sul grembiule azzurrino.
«Che bei riccetti che hai» le confessò Amore un giorno e le offrì spesso la marmellata fatta da sua nonna. Lei ne era deliziata e intanto sentiva intorno l’invidia delle altre bambine.
Le sue compagne con lei parlavano di compiti, “di madri e di padri” lasciando le confessioni e i divertimenti ad altre; Amore le rivolgeva sorrisi complici, chiacchierava di dolci, ricci e confetture, la trovava pulita.
Ma nonostante gli abiti di finta pregiatezza, nonostante Amore e nonostante le lodi delle maestre: «Io mi sentivo sola e spersa, con voglia di piangere» dice Morante.
Elsa era una bambina anemica, contraddistinta dalla fantasia sfrenata ma anche dalla salute ambigua e all’età di sei anni circa venne invitata in villeggiatura dalla Contessa Maraini, sua madrina, una donna ricca e nobile.
I capelli di Elsa erano color ali di corvo e la faccia così pallida che pareva una “bambola lavata” quando arrivò nella casa dei ricchi. L’ampio giardino e la vasta villa della Contessa Maraini diventarono il luogo di giochi, spaventi e scoperte, in compagnia di una bambina dell’età di Elsa ma di estrazione diversa: Giacinta.
Giacinta aveva un armadio tutto per sé, pieno di vestiti; a Morante cascavano dal maglione i bottoni mal cuciti, a guardarla da fuori tutti la credevano carina e gentile ma dentro lei aveva un “inferno”, la sua anima era una cosa “grossa e nera”. Ipocrita, bugiarda, velenosa, così si sentiva. Fuori appariva ligia, tranquilla, dentro si percepiva grande, alta alta, ferina. E la sua prima vittima fu la ingenua Giacinta.
Morante era furba, quando organizzava dei teatrini per gli adulti, per non apparire al centro della scena e non farsi tacciare di mancata modestia stabiliva personaggi e costumi, colorava di porpora gli oggetti di scena ma per sé teneva spesso le parti minori, come quella della Dama di Corte, mentre alla figlia della cuoca faceva fare la Regina. Il suo piacere però stava nell’assegnare a Giacinta ruoli molesti come il Diavolo che non doveva parlare o farsi vedere, ma solo spuntare alla fine per portare le altre anime all’Inferno. E Giacinta accettava, come ogni bambina accetta le vessazioni delle altre pur di avere compagnia.
Tra il ’22 e il ’23 la famiglia Morante lasciò Testaccio per trasferirsi a Monteverde Nuovo, quartiere alto che sovrasta ancora oggi Trastevere e il fiume della città, fino alla punta panoramica del Gianicolo. La zona dove abitavano i Morante era quella delle palazzine con un unico ingresso, costruite dalle cooperative per ospitare le famiglie dei funzionari pubblici. In quegli anni c’erano ancora i prati e i figli Morante scorrazzavano per il quartiere come in un immenso giardino.
Verso i tredici anni Morante leggeva “Piccole donne”, scriveva e pubblicava i suoi racconti su alcuni giornali per fanciulli. Fu Irma a proporla per la pubblicazione portando per mano Elsa e tenendo nella borsa i suoi quaderni, dove aveva scritto avventure e favole.
Gli anni di Monteverde furono quelli del ginnasio e poi del liceo, il bambino Amore venne dimenticato, ma Elsa riceveva al banco lettere chiuse in aeroplanini, c’era scritto: Puella, ego amo te. Oppure poesie che imitavano malamente Carducci. Morante adolescente però sognava qualcuno corpulento, un aviatore o uno sportivo, che fosse avventuriero come Charles Lindbergh. Se andava alle feste da ballo indossava abiti scollati e lunghi, ma doveva con questi prendere il tram e attraversare a piedi le piazze, attirando sguardi e qualche risatina; non era brava a ballare e quando capitava sembrava o “un sacco di castagne” o “una puledra” intenta a tirare calci e dimenarsi.
Compiuti i diciotto anni Morante lasciò la famiglia per andare nel mondo, diventare autonoma e libera, poter scrivere. Non riuscì a permettersi l’università e fu costretta ad abbandonare la facoltà di Lettere, si mise a lavorare dando ripetizioni di italiano e latino, continuò a scrivere senza sosta. A venti anni conobbe uno dei più importanti critici letterari dell’epoca: Giacomo Debenedetti, che subito la notò e la fece scrivere per alcune riviste letterarie.
Così la bambina Elsa si stava per trasformare nello “scrittore” Morante.
(Il monologo completo “Elsa bambina” verrà portato in scena il 30 gennaio a Perugia e il 6 e 7 febbraio a Roma).
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