Economia
26 novembre, 2025Articoli correlati
Il 10 per cento delle aziende italiane sperimenta nuovi modelli organizzativi: orari ridotti e meno rigidi. Tanti i casi di successo, ma in Parlamento è tutto congelato
La differenza si è palesata in poco tempo. «Prima avevamo difficoltà a reperire personale qualificato, dopo ci arrivavano migliaia di curriculum», dice Andrea Zomer. «Abbiamo incrociato un tema pratico e un tema etico e valoriale. E il mercato ci ha dato ragione. Quando siamo partiti eravamo in quindici adesso siamo una sessantina. E continuiamo a crescere». Zomer è l’amministratore delegato di Zupit, azienda informatica di Trento che sviluppa software. Ben prima della pandemia, era il 2018, ha ridotto l’orario di lavoro. Da 40 a 30 ore settimanali, dal lunedì al venerdì. Alla Zupit si entra alle 8 e si esce alle 14. Il pomeriggio è sempre libero. «Il tempo è la risorsa più preziosa e democratica che abbiamo», prosegue Zomer, «e noi abbiamo deciso di usarlo meglio, per non vivere come polli in batteria». I risultati? L’efficienza per singola unità produttiva è aumentata, sono stati eliminati i tempi morti, assenteismo e turn over sono stati quasi azzerati. E di fare marcia indietro non se ne parla proprio.
Alla Zupit dicono che forse è solo l’abitudine, la paura di uscire dalla rassicurante comfort zone delle quaranta ore a fermare il cambiamento. Ma anche che c’è un linguaggio che tutti gli imprenditori possono capire: cercare personale, formarlo e trattenerlo è un costo, spesso molto più alto di quanto non richieda la pur difficile compressione dell’orario di lavoro. Poi loro sono la dimostrazione che anche le piccole aziende possono farcela. Non solo gruppi bancari come Intesa Sanpaolo o grandi imprese come EssilorLuxottica, ognuno con la propria formula: meno ore o compresse in quattro giorni anziché cinque. «Oggi il 10 per cento delle aziende italiane sta sperimentando nuovi modelli organizzativi: perché il tema vero è quello di non subordinare la produttività all’orario, concezione novecentesca del lavoro», dice Mariano Corso, responsabile scientifico dell’Osservatorio smart working del Politecnico di Milano. L’ateneo lombardo ha fatto un’indagine sentendo 1.500 lavoratori. Cosa chiedono? Prima di tutto orari meno rigidi, poi la settimana corta. «Ma persiste il vincolo di una cultura manageriale, ancora largamente radicata, che è sovente carente di capacità di programmazione», spiega Corso. «E chi non sa programmare e valutare i risultati dei propri collaboratori si rifugia nella presenza e nello schema fisso dell’orario. Invece la vera scommessa non è più legata al tempo di presenza ma all’impegno».
Eppure, mentre tante aziende, anche se ancora in ordine sparso, ci provano, in Parlamento tutto è congelato. La Camera ha rinviato alla Commissione lavoro la proposta di legge delle opposizioni (Pd, Avs, M5S) che punta alle 32 ore settimanali, a parità di retribuzione. Anche nella forma di turni distribuiti su quattro giorni, con tre anni di sperimentazione, l’istituzione di un osservatorio per monitorarla e soprattutto incentivi sotto forma di sgravi contributivi a seconda delle dimensioni dell’azienda (dal 30 al 60 per cento). «Siamo finiti su un binario morto», conferma Arturo Scotto, parlamentare del Pd tra i firmatari della proposta di legge. «La maggioranza di governo contesta che si riduca l’orario con una normativa, nonostante la gradualità prevista dal nostro impianto: alla fine del triennio la riduzione avviene, settore per settore, sulla base dei dati dell’Osservatorio. Di fatto la maggioranza si trincera dietro la logica che blocca l’introduzione del salario minimo: comprime l’autonomia della contrattazione».
Se la paura è quella di ridurre la produttività già bassa che affligge l’Italia allora, commentano i giuslavoristi, è bene rammentare il progetto che nel Regno Unito, nel 2022, ha coinvolto 61 aziende: produttività mantenuta o incrementata nel 35 per cento dei casi, assenteismo in picchiata (65 per cento in meno), aumento della capacità delle imprese di attirare o trattenere personale. «Detto questo, non esiste un modello unico buono per tutti», avverte il giuslavorista Aldo Bottini. Insomma, meglio evitare gli schemi troppo rigidi e uguali per tutti, calati dall’alto, sulla scia delle 35 ore della Francia. «Ben vengano invece gli incentivi, soprattutto a favore delle piccole e medie imprese», dice Bottini, «il mondo del lavoro è in profonda trasformazione. Non dobbiamo dimenticare che è sempre più difficile reperire personale e i lavoratori hanno aspettative completamente diverse rispetto al passato».
E il punto è che tutto sta lentamente cambiando anche in Italia. Solo che è un cambiamento che parte dal basso. Alla Tria SpA, azienda di Cologno Monzese che opera nel campo della plastica (100 dipendenti) hanno per esempio rivisto completamente l’organizzazione, con la riduzione a 36 ore (a parità di salario e senza toccare le ferie). «Abbiamo scelto la massima flessibilità: adesso si entra dalle 7 alle 9 e il venerdì tutti a casa alle 11», spiega l’amministratore delegato Luciano Anceschi. Regola che vale per tutti, operai e impiegati, in questa media azienda che fattura 40 milioni all’anno. «Dopo la pandemia siamo stati investiti da un’ondata di dimissioni, la gente voleva cambiare lavoro, fare altro», ricorda Anceschi. «In questo modo non solo siamo riusciti a fermare l’esodo e a invertire la rotta. La produttività è aumentata dell’8 per cento e i lavoratori non ci chiedono quasi più permessi per visite mediche o incombenze varie. Ma non è un miracolo, se hai una buona organizzazione ce la fai».
Che non sia un miracolo lo conferma anche il caso di Lamborghini. La casa automobilistica di Sant’Agata Bolognese, che conta 1550 lavoratori, voleva cambiare il sistema dei turni e così da un anno a questa parte ha iniziato a sperimentare una piccola rivoluzione. «Adesso alterniamo settimane da cinque giorni lavorativi a settimane da quattro», dice Matteo Della Rocca, responsabile delle relazioni sindacali. «Il tema», aggiunge, «è lavorare meglio oltre che lavorare meno. Abbiamo applicato il modello a tutta la fabbrica, facendo anche investimenti nell’automazione collaborativa. La produttività è rimasta invariata o è aumentata, nelle linee della catena di montaggio è cresciuta: dal 5 al 10 per cento in più. I lavoratori si sono espressi con un voto plebiscitario: oltre il 95 per cento a favore». Alla Lamborghini osservano che tutto sta funzionando ma dicono anche che i vari modelli non sono fotocopiabili. «Ognuno deve trovare la propria organizzazione in relazione alle proprie esigenze produttive», aggiunge Della Rocca.
Nonostante i tanti casi di successo, nonostante non solo le grandi aziende stiano ripensando l’organizzazione del lavoro, il governo (e tante imprese) alzano un muro. «Nella contrattazione cerchiamo sempre di inserire anche la riduzione dell’orario ma al massimo otteniamo qualche giornata di permesso in più», dice Francesca Re David, responsabile della contrattazione della Cgil. «L’idea è sempre quella di lasciare le aziende completamente libere da ogni vincolo, la logica sottesa è ancora quella del maggior sfruttamento possibile del lavoro. Una logica che vediamo soprattutto nel terziario. Serve una legge che definisca un orario pieno. Poi è necessaria la contrattazione di primo e secondo livello, adattandola ai vari settori produttivi». Per ora tutto è fermo.
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