Cultura
6 novembre, 2025Un padre, che di mestiere fa il legale, si isola dal mondo dopo un grave lutto. E si occupa di un gruppo di ragazzi. La storia di “Cinque secondi”. L'intervista al regista
Un film sulla colpa e sulla cura insieme struggente, ironico e poetico. Paolo Virzì si siede per parlare del suo nuovo “Cinque secondi” presentato in anteprima alla Festa del Cinema di Roma, ora al cinema.
È la storia di un avvocato che ha scelto di isolarsi dal mondo a seguito di un grave lutto familiare. È un padre tormentato e attraversato da un dilemma: «Teme di aver fatto qualcosa di imperdonabile ed è il mistero più doloroso del suo autoesilio per espiazione».
Virzì torna a raccontare una storia di paternità ampliando lo sguardo anche alla paternità non biologica: il suo protagonista, interpretato ancora una volta da Valerio Mastandrea, imparerà a prendersi cura dei suoi nuovi vicini, un gruppo di ragazzi che occupa un antico casale con un vigneto abbandonato per ridargli vita.
“Cinque secondi” è un film con uno sguardo molto benevolo verso le nuove generazioni, che si stanno attivando tanto, nel sociale, nel politico, a favore dell’ambiente.
«Non mi piace il pregiudizio di chi irride i giovani e li guarda come gli intontiti di TikTok, io sono convinto che siano pieni di risorse. È un momento dolorosissimo per il mondo, per le guerre, ma anche perché tornano a galla temi che pensavamo che il Novecento avesse superato, come il nazionalismo. Ci sono spifferi di odio e negazioni dell’esistenza altrui che spaventano. Ma per fortuna ci sono state anche le piazze piene di ragazzi a manifestare. Mi spiace solo che gli stessi giovani siano stati trattati con aggressività da molti, anche dalla premier, quando sono loro la nostra salvezza».
Lo dice da padre di tre figli?
«Anche. Ottavia, la mia primogenita, è stata un’ambientalista estrema, è andata in casali in Abruzzo abbandonati simili a quello che vediamo nel film, li ha ripristinati e con i suoi amici viveva lì, senza riscaldamento, corrente elettrica e acqua. Ricordo che andavo a trovarla e le chiedevo: “Ma sei sicura?”».
E lei?
«Era sicura, come Matilde (interpretata da Galatea Bellugi, ndr) e i ragazzi di questo film, un po’ woke e portatori di un nuovo mondo. Quando ero ragazzo vicino a Livorno c’era la comunità degli Elfi: ragazze e ragazzi che con i figli occupavano casali abbandonati in montagna e luoghi irraggiungibili. Mi piaceva raccontarli come un altro modo di pensare la vita. I ragazzi di oggi tengono all’ambiente, si spendono per tutelarlo, hanno un rapporto sano con la natura. Malgrado la mia inclinazione al disincanto, mi conquista questa generazione che reinventa un modo di stare al mondo, condividendo i frutti della terra con la gente del posto, alimentando il senso di comunità e aiuto reciproco. Può infastidire chi li giudica “fricchettoni”, a me invece affascina l’idea di salvezza da queste nuove generazioni che mettono in discussione le nostre certezze».
Come quelle del burbero protagonista, che finisce per difendere legalmente questi ragazzi e aiutarli poi nel pratico.
«Diventa una sorta di caregiver prima e di levatrice dopo, senza svelare troppo, ma insomma è anche uno che le cure le riceve. Soprattutto dal personaggio di Valeria Bruni Tedeschi, che qui interpreta la socia dello studio legale che poi scopriamo essere innamorata di lui, intenta nel tentativo di scuoterlo a modo suo. Avere cura di qualcuno è anche stirargli la camicia per renderlo presentabile in un’aula di tribunale. Amo dirigere Valeria, tutta la sua follia e l’ilarità tragica che porta con sé».
Ha sempre pensato a Mastandrea per il protagonista?
«Sempre, se lo avesse chiamato Martin Scorsese mi sarei fermato ad aspettarlo. L’ho contattato da quando non c’era neanche un vero copione, ma solo un racconto. Mi richiamò dicendomi che gli avevo rovinato il weekend. Noi ci prendiamo da sempre molto in giro, da quando tanti anni fa mi chiamò fingendo di essere un giornalista per un’intervista che gli rilasciai anche. Per questo film mi ha detto subito: “Famolo, Pà”. È stato un gigante nei panni del solitario misantropo che viene da una parte disturbato e da una parte riattivato dai nuovi giovani vicini di casa».
Come si supera l’ansia da prestazione dopo film pluripremiati come “La prima cosa bella” e “La pazza gioia”?
«Mi balocco con quello che non riesco ancora a considerare un mestiere, perché è un dono capitato per caso. So di non essere più un ragazzino, ma divertirmi con quello che faccio mantiene sempre attivo un lato creativo infantile. Forse ultimamente ho fatto dei film pessimisti, anche in “Cinque secondi” parto dall’abisso di una storia molto dolorosa, ma poi cerco di capire cosa accade nell’animo di una persona, con uno spiraglio di fiducia verso le relazioni e la natura umana. Perché c’è sempre la possibilità di prendersi cura degli altri, anche dopo il lutto e il dolore più cieco. Volevo raccontare tutto questo senza un film a tesi, ma cercando di sollevare qualche domanda: “Cosa vuol dire essere genitore e padre? Generare figli? E cos’è una famiglia?”».
Una domanda gliela faccio io: come vive il passare del tempo?
«Ho scoperto che invecchiare non è diventare più forti, ma più vulnerabili. A trent’anni non m’importava dell’uscita dei primi film, li affrontavo con incoscienza scellerata. Oggi sono molto più emozionato e agitato di allora».
Si isolerebbe mai dal mondo come Mastandrea nel film?
«No, temo mi annoierei. Amo la solitudine, ma non così estrema, anche per scrivere mi piace condividere insieme le idee, specie se come ho fatto per questo film scrivo con i miei fratelli, quello biologico Carlo e l’acquisito Francesco Bruni. Quando disegno invece lo faccio da solo, è un gesto impulsivo, anarchico».
Quale reputa sia il ruolo del cinema oggi?
«Il cinema è comunità, incontro. Là dove le sale sanno essere luoghi accoglienti per la comunità sono piene. Al tempo stesso c’è la possibilità di attingere a uno sterminato archivio di titoli anche dal divano di casa propria, cosa che quando ero ragazzo io non era pensabile. Le piattaforme avranno pure tolto spettatori alle sale, ma anche allungato la vita dei film».
Che cosa risponde a chi dice che fare cinema è un mestiere da privilegiati?
«C’è un astio grossolano verso i cineasti. In questi giorni si parla dello scandalo delle produzioni che avrebbero gonfiato i costi di alcuni film, tra i titoli incriminati c’è anche il mio “Siccità”. I nomi dei registi vengono sbandierati come se quei soldi li avessero intascati loro, invece nel caso sarebbero i primi danneggiati: ingannati e poi esposti come capro espiatorio».
Privilegiato lei si è mai sentito?
«Sono stato fortunato, ma in un altro senso. Vengo da una periferia popolare di una cittadina della provincia toscana, orfano di padre, con madre casalinga. Sono arrivato a Roma ventunenne a fare la scuola di cinema con la valigia di cartone. A 23 anni ho iniziato a lavorare come sceneggiatore, a 28 ho debuttato come regista. Per uno che non aveva neanche il fanatismo del cinema, a differenza di altri colleghi, mi è andata più che bene».

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