Cultura
10 dicembre, 2025Vestiti sul pavimento. Lenzuola sgualcite. Scarpe abbandonate. È il paesaggio che il desiderio lascia dietro di sé. Immagini di erose intimità che inscenano il nuovo libro della Nobel
Come Annie Ernaux ha raccontato nell’intenso discorso di ringraziamento in occasione del premio Nobel assegnatole nel 2022, la letteratura sempre è stata per lei un universo diametralmente quanto simbolicamente opposto alle sue origini umili. Un “continente” antitetico in termini sociali al suo mondo di figlia di operai poi divenuti piccoli commercianti in un villaggio della Normandia, e “continente” con meticolosa intelligenza narrativa trasformato in grimaldello di nemesi e in strumento di rivendicazione, rampa di lancio di un’affermazione di sé come donna, come intellettuale, docente, e soprattutto come autrice. Grazie a libri quali (tra gli altri) “Gli anni”, “Il posto”, “Memoria di ragazza”, “La vergogna”, “L’evento”, “Passione semplice”, “Una donna”, la sua voce si è imposta, chirurgica e inconfondibile. A raccontare secondo costruzioni narrative sempre allegoriche e sempre lontane dall’ovvio, un’ascesa sociale e un personale percorso di emancipazione femminile, anche affrontando temi quali aborto, mestruazioni, stupro, desiderio, compensazioni del lutto, memoria generazionale, con uno stile e secondo una visione mai usati prima, da nessuno.
Anche la questione delle immagini ha interpellato Annie Ernaux, e lo ha fatto sin dagli esordi della sua vita di scrittrice. Immagini nel senso di suggestioni che testimoniano la durata e la favoriscono, ma anche, immagini nel senso di tracce visive destinate all’estinzione, se si considera la vibrante epigrafe de “Gli anni” (2008): “Tutte le immagini spariranno”. La fotografia sempre ha costituito un dispositivo letterario vero e proprio, e cruciale. In “Memoria di ragazza” (libro del 2016 uscito in Italia l’anno dopo, nella fedelissima versione del suo editore e traduttore Lorenzo Flabbi), guardare fotografie le è utile per articolare quel continuo processo di ricognizione autobiografica che sta al centro del suo scrivere. Osservare le foto stabilisce un fecondo “presente anteriore”, immanenza di momenti che appartengono al passato ma senza che al passato siano mai consegnati del tutto, perché ogni sguardo è potenzialmente in grado di riportarli alla vita, sbalzarli nell’oggi – in quella strana e tanto ricca sfasatura cronologica che è un “adesso” intriso di “prima”. È quel genere di presente gravido di anteriorità a far scrivere ad Annie Ernaux mentre osserva scatti di se stessa ragazza: “Quella che vedo non è me, ma una sorta di presenza reale in me”. E analoga discrasia di piani temporali marca il suo stile tanto peculiare, quella “auto-socio-biografia” dove l’Io è simultaneamente anche collettivo, specchio di un’epoca intera. Le fotografie insomma puntellano il percorso a ritroso della “jeune fille” Annie Ernaux, la quale proprio grazie al gesto di tornare a guardarle incomincia un lavoro di “decostruzione di sé” indispensabile alla sua prospettiva. Fotografie e parole finiscono con il tracciare itinerari opposti: le prime scompongono il Sé in un prisma di ricordi diversi, le seconde fissano, stabilizzano, perché è attraverso il flusso della prosa e il dono inesauribile delle parole che il Sé si assesta, trova misura, radice, significato.
Alla questione del rapporto tra fotografie e ricordi è dedicato un libro del 2005 ma che arriva in Italia soltanto adesso, a quattro anni di distanza dall’assegnazione del Premio Nobel alla scrittrice normanna. “L’uso della foto” (L’Orma) farà certo molto parlare di sé, per via del tema (la passione amorosa, e quel che di una grande intesa erotica resta nelle sue tracce visibili), ma anche in ragione del modo in cui è costruito. Un libro anomalo, a partire dalla sua genesi. Un libro dove le foto precedono le parole e le ispirano, fissando nella realtà delle immagini memorie altrimenti effimere, destinate a scolorare in assenza di forme tangibili.
«L’idea fu mia», racconta Annie Ernaux al telefono; «È vero che alla fotografia come dispositivo letterario pensavo di continuo, di più ancora perché avevo incominciato a lavorare a “Gli anni”. Ma poiché non uso parlare a nessuno dei miei libri mentre li scrivo, nemmeno ne ho parlato al fotografo Marc Marie, con il quale avevo da poco incominciato una relazione». A quell’uomo empatico e intelligentissimo, lei invece confida e affida la sua proposta creativa. Fotografare i luoghi dove loro due si trovano e fanno l’amore: stanze d’albergo, camere di appartamenti, alcove occasionali o abituali. Realizzare scatti che immortalino quegli spazi, ma in cui loro mai siano presenti, mai i loro corpi, mai tantomeno i volti. Presentissime invece altre tracce, molto erotiche nel loro potere di evocazione. Vestiti, scarpe, letti sfatti ancora impregnati della felicità e sintonia dei corpi. Segni della passione, braci di incendi appena divampati. «Insieme, Mar Marie e io abbiamo scelto gli scatti che ci sembravano i più eloquenti e significativi: poi, ciascuno per proprio conto, ne abbiamo scritto. Senza leggerci a vicenda, se non a libro ormai pronto e consegnato all’editore».
C’è tutto di un patto, e di un patto erotico: la complicità e la più profonda intesa sul piano dell’intimità, ma subito dopo, la capacità di separarsi, dire e dipanare ognuno la sua versione e visione della “scena del crimine”. Fondersi, poi scindersi, come poli attratti in maniera irresistibile. Il risultato è una serie di fotografie intriganti per quanto dense di allusione, e di tensione vitale. Scatti in bianco e nero, vestiti sparpagliati alla rinfusa su freddi pavimenti di maiolica, un reggiseno calpestato da uno scarpone da uomo, biancheria intima appallottolata in mezzo a una cucina o accanto al drappeggio di copriletti o asciugamani. Disordine, furioso, della stessa furia felice della passione che si intuisce è divampata sino a pochi istanti prima. In corrispondenza, i testi alternati dei due amanti coautori, le loro cronache amorose, di lancinante forza letteraria quelle di Ernaux, lucide e a loro modo commoventi quelle del suo sodale Marc Marie.
Più che orgoglio per quell’idea tanto originale e “provocante” che le era sopravvenuta come un lampo nella mente, Ernaux prova tenerezza, e gratitudine, ricordando il tempo della sua realizzazione: la corrispondenza di amorosi sensi che aleggiava su tutto. «Certi libri sono intere epoche della vita, e “L’uso della foto” lo è per me, moltissimo», mi dice con nostalgia. Epoca d’amore, epoca di malattia. «Marc e io ci eravamo appena conosciuti, quando ho deciso di dirgli della mia condizione. Mi era stato diagnosticato un tumore alla mammella e mi sarei operata di lì a poco. Eravamo a cena, alla nostra prima uscita, quando gliel’ho detto; di tutta risposta, lui ha voluto passare la notte con me, e da allora in avanti, per il tempo dell’operazione e poi delle cure, c’è stato sempre. Una passione guaritrice, davvero si è trattato di questo. Stavo malissimo, e invece questo amore mi regalava una grande gioia». Attraversamento di uno stato di angoscia nel segno di una massima intesa amorosa e artistica, commistione di parole e fotografie, linguaggi rispettivi di ciascuno, ma fusi nel codice comune dello stile di questo singolarissimo, intrigante libro. «Marc è morto qualche anno fa, non ci sentivamo da tempo; ogni riedizione de “L’uso della foto” mi riporta a quel tempo irripetibile, di intensità sublime per come intessuta insieme di vita, e della paura di morire». Mescolare le forme espressive, lasciare che attraverso fotografie e parole l’eros e il mistero della sua evanescenza – fuggevole profondità, leggera e dolcissima malinconia – convergano in una sfida letteraria pienamente riuscita. «Motivo di fondo del libro, e di massima fascinazione per me, era il tema della scomparsa», Ernaux continua a raccontare: «Cosa resta dopo che un atto, un atto sessuale in questo caso, è accaduto. Queste fotografie erano pensate, e restano, come tracce materiali dell’immaterialità del sesso». Nelle fotografie, di ogni amplesso resta un’atmosfera, umori, odori, ogni volta incendio di sensi e una febbre, poi la fine di quella febbre. Ma nel fondo, cosa davvero rimane? Le parole riportano alla luce quel che si è depositato tra le pieghe del tempo, su vestiti e tessuti, o invece, come una polvere, sopra i mobili e all’ombra delle memorie. «Le foto, e le parole che le descrivono, illuminano il paesaggio devastato dopo l’amore. Dove le immagini spariscono, il racconto vince, permea di sé tutto». Con determinazione la scrittrice si è trovata al momento dell’uscita in Francia de “L’uso della foto” a dover difendere il libro da triviali provocazioni scandalistiche ospitate sulle pagine culturali dei giornali. “Ernaux se déshabille”, campeggiava a caratteri cubitali, come se il nocciolo e l’intera questione risiedessero in quella intimità tanto appassionata e solo evocata, in quel mettersi a nudo senza che un solo dettaglio di corpo nudo mai fosse presente, mostrato o esibito. Contro ogni provocazione, con la sua autorevolezza di scrittrice mai opaca e invece lucidissima circa le proprie intenzioni letterarie, lei ha continuato e continua a ribadire il significato autentico dell’esperimento. Anche adesso, a distanza di vent’anni, quel che ancora continua a sembrarle decisivo è il “raddoppiamento nostalgico” che le fotografie di lei e Marc Marie sanno generare. Foto che immortalando il tempo dell’amore dicono (anche poeticamente) il suo essere fuggito via, ma foto che in quanto tracce immateriali moltiplicano la portata sensuale ed emotiva di quegli stessi momenti. Di lì, la questione del termine “uso” del titolo. Quando le chiedo come vada inteso, Ernaux non ha esitazioni. «Perché la fotografia l’abbiamo usata, è stata strumento alla base di tutto. Ma anche perché quelle immagini, orfane di esseri umani e così impregnate di atmosfere di spazi, possano a loro volta attivare ricordi, personali fantasie erotiche, e le mille altre sensazioni private che albergano in ciascun lettore». Non si raddoppia solo la nostalgia: anche l’immaginario. Ecco il più bello e ampio degli usi possibili delle fotografie.
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