Cultura
11 dicembre, 2025Una donna comunica solo con un’amica molto piccola. Insieme parlano di solitudine, di amore,di guerra e di fallimento. La protagonista del film “Il rapimento di Arabella” si racconta
Benedetta Porcaroli recita da quando aveva quindici anni. Oggi, dopo aver ricevuto, a Venezia, il premio Orizzonti per la migliore interpretazione femminile, torna al cinema con “Il rapimento di Arabella” di Carolina Cavalli. Nel film interpreta una giovane donna, Holly, che trova un’autentica forma di comunicazione solo con una bambina, in un racconto sospeso da cui emergono la fragilità e il bisogno di sentirsi visti. Da qui parte la nostra conversazione, che attraversa temi come la pressione della performance, il valore del fallimento e della solitudine, l’amore come luogo felice e la possibilità — ancora — della compassione.
Benedetta Porcaroli, cosa hanno i bambini che noi adulti abbiamo smarrito?
«Ti mettono di fronte a una verità spietata, perché sono senza filtri. Holly incontra la versione di sé bambina e, attraverso questo viaggio metaforico, è come si sottoponesse al giudizio di un tribunale interiore che le chiede: hai mai tradito la bambina che sei stata? I bambini sono puri, saggi, scevri da sovrastrutture sociali. Il loro sguardo è implacabile. Mentre noi adulti passiamo il tempo a scandalizzarci, a filtrare, ad allinearci, azzerando il dibattito per non doverci mai trovare in disaccordo, i bambini hanno la potenza del fuoco».
Una potenza che si annienta nel pensiero unico…
«Ormai siamo tutti “algoritmati”».
Nel film i personaggi si sentono inadeguati in una società che spinge a essere sempre competitivi e produttivi. Cosa si perde in questa ossessione per la performance?
«Il valore del fallimento. Se solo accettassimo il fatto che il fallimento non ci determina, non ci definisce, se riuscissimo a essere più tolleranti e meno giudicanti... Invece siamo tutti qui, con il terrore del giudizio, abituati al pollice in su o in giù, al bianco e al nero. Insomma, la forma del nostro pensiero è veramente riduttiva rispetto alla complessa meraviglia del mondo».
Il fallimento non ci determina. E il successo?
«Il successo è già un participio passato: noi attori, senza pubblico, non esistiamo. È una fiammata che non dura per sempre. Non ho avuto grandi difficoltà a gestirlo, forse, anche perché non avrei difficoltà a gestire il fallimento: relativizzo entrambi».
Quest’anno, alla Mostra del cinema di Venezia, ha vinto un premio prestigioso. Ha relativizzato?
«Mi sono detta: che bel traguardo. E poi: ora ricomincio da capo».
Forse è per questo che continua ad avere successo… Che rapporto ha con la solitudine, altro tema centrale del film?
«Prima la solitudine mi terrorizzava, poi ho capito che è una risorsa. Saper stare soli significa anche accettare il dolore, ed è importante, perché negarlo ha un costo sociale. Un uomo che non sa soffrire mi fa paura. Se anche un quindicenne pensa che la risposta al dolore sia la violenza, abbiamo un problema grave. Cosa gli abbiamo trasferito in famiglia e a scuola? Perché, nonostante ogni giorno leggiamo di donne morte, non si rende obbligatoria l’educazione sessuale e affettiva? Perché nessuno ci insegna che il dolore è utile?».
Lei come lo ha scoperto?
«Quando ho visto mio padre piangere. Lui mi ha insegnato la fragilità, l’empatia, mettendomi di fronte al proprio dolore senza vergognarsene. Avere a che fare con il dolore dell’altro ci responsabilizza».
Holly e Arabella hanno padri assenti o inadeguati. Sono personaggi che riflettono l’evaporazione del ruolo paterno nella società odierna?
«Sì, perché siamo tutti figli senza padri. Tra giovani e adulti c’è un’incomunicabilità assordante. Genitori iperprotettivi che, al contempo, tralasciano le cose più importanti. E noi figli ci ritroviamo in un vuoto cosmico, senza fondamenta».
Per cambiare il sistema bisogna saper uccidere – metaforicamente – i nostri padri?
«Io sono una femminista militante ma, pur comprendendo la rabbia delle mie amiche, spero esista un’alternativa al “maschi contro femmine”. Forse bisogna passare anche per questo, è una fase inevitabile, l’antitesi di quello che è stato fino a ieri, però mi auguro troveremo presto una sintesi».
Per lei l’amore è un luogo felice?
«L’ho sempre immaginato come un tormento, una rincorsa, una missione, riproducendo dinamiche che mi portavo dietro da sempre. Poi, ho imparato a scardinare la mia idea di amore dal controllo, dal possesso, dalla mortificazione. Oggi, per me, è una porta aperta da cui sono libera di entrare e uscire. Un mare calmo, senza neanche un’onda».
Lei ha raccontato di come la tragedia a Gaza abbia influenzato fortemente la sua vita.
«Un’esperienza così scioccante non l’avevo mai vissuta. Anzi, dopo due anni e mezzo di immagini terribili, alternate ai rossetti, alle pubblicità, mi chiedo cosa ne sarà di noi, delle nostre coscienze? Spero che, almeno, questa pagina buia abbia riacceso una speranza collettiva. C’è una luce ed è quella della compassione: penso alle barche dirette verso Gaza, a esseri umani pronti a sacrificare la propria vita».
I bambini non fanno la guerra.
«No, i bambini muoiono nella guerra».
Davanti a una tragedia simile, è difficile rispondere a una domanda: crede in Dio?
«Credo in Dio. Credo ai valori cristiani, come al porgere l’altra guancia. Non credo in Dio come a una superstizione, ma per ringraziarlo di tutto, se esiste. Ecco, vede? Mi prendo una riserva».
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