Cultura
23 dicembre, 2025Il tifo sfegatato per Alcaraz in finale al Roland Garros, la polemica e ora il chiarimento. Il regista americano parla del nuovo film “Highest 2 Lowest”, il quinto con Denzel Washington. E annuncia il prossimo lavoro, sul Viagra: “Sarà un musical basato su una storia vera, vi farà ballaree cantare”
«Peace and Love: solo amore, no odio, per favore». Inizia così l’intervista con Shelton Jackson Lee, per tutti Spike Lee, un fiume in piena di aneddoti, opinioni, battute, memorie. L’eclettico regista, premiato con l’Oscar alla carriera dieci anni fa e considerato a oggi il più rappresentativo dei cineasti afroamericani, ha ritirato la Stella della Mole al Torino Film Festival ricordando con orgoglio: «Quando dicevo che volevo fare il regista ad amici e parenti tutti mi dicevano che ero fuori di testa. Ma in cuore mio sapevo che avrei fatto questo e solo questo a vita». Ci è riuscito, e con “Highest 2 Lowest” (disponibile su Apple Tv) ha firmato la quinta collaborazione con il suo attore-feticcio Denzel Washington.
Sono quarant’anni che fa cinema: come ha visto cambiare il mondo dell’audiovisivo nel frattempo?
«Radicalmente, sotto ogni aspetto. Alcune cose sono migliorate, penso allo spazio sempre maggiore che ha conquistato la nostra comunità black, sempre più davanti e dietro la cinepresa. Oggi gli artisti neri recitano, scrivono, dirigono, ci sono stati innegabili evoluzioni. C’è addirittura una saga, “Black Panther”, che mi ha molto esaltato, del resto apprezzo molto il regista Ryan Coogler, ho visto anche il suo “Sinners” e mi ha scioccato positivamente».
Peggioramenti ne ha visti?
«Ai miei tempi non c’era lo streaming. Mai avrei immaginato di ritrovarmi a 68 anni con il mio nuovo film “Highest 2 Lowest”, uscito in sala appena tre mesi e poi dritto su Apple Tv. Non lo nego, mi ha molto deluso non aver avuto un’adeguata distribuzione. La maggior parte dei registi desidera che i film vengano visti sul grande schermo, io di sicuro, eppure non ho potuto farci niente. Anche se si trattava di un film non del primo sconosciuto, ma di Spike Lee».
Con Denzel Washington, tra l’altro.
«È il nostro quinto film insieme. Abbiamo realizzato non un remake di “Anatomia di un rapimento” di Akira Kurosawa, ma una reinterpretazione jazz del romanzo “Due colpi” in uno di Ed McBain. Dico “abbiamo” perché Denzel, mio fratello, è un vero genio e il miglior attore vivente al mondo. Non esagero: almeno un paio di scene non erano in sceneggiatura, le ha reinventate lui senza dire niente a nessuno, quello che ha fatto uscire è di gran lunga migliore di quello che avevamo pensato prima».
Come ha scelto la giovane Aiyana Lee per la colonna sonora?
«Ci tengo a dire che non è mia figlia, mia moglie mi consiglia di sottolinearlo perché c’è qualcuno che lo pensa (Spike Lee ha avuto due figli con la moglie Tonya Lewis Lee, Jackson e Satchel, ndr). L’ho trovata via Instagram, l’ho ascoltata cantare e mi è piaciuta. Le ho scritto un messaggio privato, era convinta che fossi uno che si spacciava per Spike Lee, invece io i social li uso in prima persona. Quando ci siamo incontrati a Los Angeles le ho chiesto di propormi una decina di brani per il film, mi auguro che il suo brano diventi una hit e finisca agli Oscar».
Le nuove generazioni di artisti evidentemente non la spaventano, l’intelligenza artificiale?
«Come dice Denzel nel film, le macchine che fanno musica sono senza cuore e senza anima. Viviamo un momento preoccupante, la tecnologia è così accurata che è impossibile distinguere se siano vere o no le immagini di cui fruiamo, e chi la usa purtroppo non lo fa per scopi nobili. Chiede poi alla persona sbagliata, temo: io ancora scrivo rigorosamente a penna, trovo che la tastiera sia una mediazione fuorviante, le mie sceneggiature sono scritte tutte a mano, senza filtri a interrompere il flusso di pensieri tra carta e testa».
Robert De Niro ha più volte tuonato contro Trump, dicendo che è ora di riprendere in mano il Paese. Concorda?
«Potrei citare Peter Weir, è stato “Un anno vissuto pericolosamente”. Ma per il titolo, non certo per Mel Gibson con cui non siamo affatto allineati politicamente. Bobby invece, come Marty, è uno di noi (si riferisce a Robert De Niro e Martin Scorsese, ndr) e sono d’accordo con lui. Abbiamo gli stessi valori, abbiamo anche entrambi incontrato il Papa, e i nostri figli sono molto amici come noi. Provo solo amore per lui e i suoi pensieri, e come lui non ho paura di parlare anche di politica, il mio cinema da sempre tocca altri argomenti che trovo importante affrontare».
Come vede oggi il suo Paese?
«Da newyorchese sono felice del nuovo sindaco, ho votato per lui, è importante che abbia vinto. Non riesco a capire bene cosa stia succedendo, non ho compreso le cose che Trump ha detto di lui, chiamandolo comunista, dicendo che New York andrà a farsi benedire e taglierà i fondi alla città. Vedremo. Sia chiaro, io parlo solo per Spike Lee, non per tutti gli americani, o tutti i neri d’America».
Ha citato il Papa, com’è stato incontrarlo?
«Non potevo crederci, fluttuavo nell’aria già solo all’idea. Il Papa è di Chicago, la sua famiglia proviene da New Orleans, la nostra comunità black lo chiama “il nostro fratello”, sentiamo che ci appartiene. Mi sono detto: «Devo andare e omaggiarlo con la maglietta Nba, con scritto Pope Leo e 14, che è il suo numero». Non era scontato che riuscissi a dargliela, fino all’ultimo nessuno mi dava l’autorizzazione, alla fine ce l’ho fatta».
Come ci è riuscito?
«Mostrandogliela prima ancora del suo discorso, ero in prima fila e lui già sorrideva, lì ho capito che l’avrebbe accettata. Ha detto delle cose molto belle e importanti sul cinema, che può avere un grande impatto sul bene di tutti su questo Pianeta».
Cosa ha insegnato a lei il cinema?
«Mia madre amava vedere i film, mi portava spesso al cinema e io l’amavo perché mi divertiva tanto. Mio padre era un musicista jazz, autore di una serie di colonne sonore, la musica fa parte di me sin dall’infanzia, è casa, ma è il cinema ad avermi insegnato tutto. E io ho appreso, costruendo a poco a poco la mia carriera, nessuno avrebbe mai pensato che sarei arrivato dove sono adesso. È quello che dico ai miei studenti ogni giorno - insegno cinema da trent’anni a New York, dove sono cresciuto - è a scuola che devono imparare a capire se studiano quello che vorranno fare a vita o no. Io mi sento benedetto ancora, all’età che ho, a potermi guadagnare da vivere facendo quello che amo. Milioni di persone ogni giorno si alzano dal letto per fare un lavoro che detestano, ma devono occuparsi della famiglia e poter mettere il cibo a tavola. Svegliarsi felici di lavorare è un privilegio, non dimentichiamolo».
Chi sono stati i suoi maestri?
«Potrei stare ore a rispondere a questa domanda, mi limito a dire che da studente amavo i film di Vittorio De Sica e Federico Fellini, ma anche Akira Kurosawa. Guardavo il cinema di tutto il mondo, mi interessava il confronto tra culture, esplorare punti di vista e storie diverse. Kurosawa tra l’altro l’ho incontrato di persona, nel mio studio conservo un ritratto bellissimo che lui stesso ha firmato con un pennello bianco. Ogni volta mentre lavoro su un progetto mi giro verso il ritratto e chiedo: “Va bene quello che ho fatto, maestro? Che ne pensi?”».
È vero che vuole realizzare il prossimo film sul Viagra?
«Sarà un musical basato sulla storia vera su due lavoratori americani alla Pfizer, uno scienziato di origine thailandese e l’altro di origine giamaicana. Inizialmente il Viagra doveva curare le patologie cardiache, mentre l’hanno testato gli uomini sottoposti alle sperimentazioni avevano sei ore di erezioni. Si è trattato di un errore gigantesco, era un farmaco per tutt’altro. Fa ridere, ma ci sono andate di mezzo molte persone morte d’infarto, cosa che non hanno detto prima, per fare più soldi. Il mio film comunque sarà un musical, vi farà ballare e cantare. Chi se lo aspetta un musical da me? Per questo lo voglio fare, ma al momento non riesco a ottenere i finanziamenti».
Come se lo spiega?
«È difficile oggi riuscire a convincere gli studios, a Hollywood vogliono solo remake, sequel e reboot. Io non farò mai roba del genere. Oppure film sui supereroi e d’azione. Le storie originali non sono più richieste».
Come si sblocca la situazione?
«Andando avanti. Anche i più grandi registi al mondo hanno progetti che non prendono mai forma, perché dovrei essere io l’eccezione? Ci sono tanti problemi nel fare cinema oggi, certi film che si fanno magari non vanno bene, ma dagli errori si impara e si va avanti. Poi ci sono i successi inaspettati come “Lola Darling”, film che quasi mi ha ucciso, lo girammo a ritmi folli e con appena 170mila dollari di budget messi insieme in modo raffazzonato, eppure fece otto milioni e mezzo al botteghino. Una cifra da capogiro, non avrei mai potuto prevederlo. Posso dire un’ultima cosa?».
Prego.
«Non c’entra con il cinema, ma la prego di scrivere che non ho niente contro Jannik Sinner! È un fantastico giocatore, lo adoro, qualcuno mi ha visto troppo entusiasta per Carlos Alcaraz nella finale di Roland Garros e ha pensato che gli mancassi di rispetto. Io invece spero di incontrarlo presto, stringergli la mano e dirgli quanto lo stimo. Amo lo sport e da collezionista quale sono mi piacerebbe aggiungere una sua racchetta autografata alla mia collezione, dopo quelle di Serena Williams e Coco Gauff».

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