Cultura
5 dicembre, 2025I luoghi d'infanzia, le testimonianze di familiari, amici e collaboratori, insieme alle musiche di Nicola Piovani, delineano il percorso di un uomo che ha cercato sempre di "conciliare dignità e impresa"
C’è un momento, all’inizio di Brunello il visionario garbato, il nuovo film di Giuseppe Tornatore, in cui lo stesso protagonista, Brunello Cucinelli, cammina tra i filari della vigna sorta al posto dei capannoni demoliti a Solomeo, rispettando un’inquadratura tersa, quasi metafisica. «Il fuoco è stato importante per me, è l’anima di ogni luce», mormora. Lo dice come si confessano le verità che hanno formato un carattere: lente, inevitabili e in parte misteriose. Quel cammino nella terra riconquistata sembra la chiave del film – in uscita il 9 dicembre per 01 Distribution – il percorso di un uomo che ha cercato di “conciliare dignità e impresa”, come ripete da sempre, e che qui accetta di farsi raccontare come fosse già un personaggio consegnato alla memoria.
«Non sapevo nulla di lui quando l’ho incontrato la prima volta. Ne è venuto fuori un film che mi piace definire sperimentale», precisa il regista, Premio Oscar come lo è l’autore delle musiche originali Nicola Piovani. Il film è sperimentale nella misura in cui intreccia il documentario con la finzione, le voci intime con il teatro visivo, affidando a Saul Nanni il ruolo del giovane Brunello e lasciando che sia la geografia di una vita – la campagna, il borgo, il bar di provincia, la tedesca Monaco e New York – a fare da drammaturgia. Il racconto inizia da lontano, quando il mondo era fatto di solchi dritti e di tramonti che preannunciavano il giorno dopo. «I solchi di mio babbo mi hanno fatto capire il valore della bellezza», dice Cucinelli, ricordando il nonno Fiorino che lo chiamava “volpino” e che gli insegnava a leggere le persone come si leggono le carte. In quella povertà piena di significati – «non avevamo niente» – nascono due costanti del suo immaginario: la bellezza come ordine morale e l’osservazione come forma di conoscenza. Il cielo stellato di Kant, che incontrerà anni dopo, gli sarà familiare. «Voglio provare a vivere per la dignità dell’uomo», dice ancora, come se la filosofia potesse diventare una prassi quotidiana. Tutto cambia con l’arrivo in città, nella periferia di Perugia, con la televisione e l’irrompere del rumore, ma soprattutto con l’amore: Federica, sua moglie, incontrata “mentre le correvo dietro l’autobus, pensate a quanto ossido di carbonio ho respirato”, compagna di vita e custode severa del suo rigore. È lei a ricordare che Cucinelli «è un patologico dell’organizzazione», e che per lui «l’ordine è la prima legge del cielo». La sua affermazione, pronunciata con affetto, sembra il ritratto più limpido dell’imprenditore che considera se stesso “custode” e non proprietario: elegante nella forma, quasi monastico nella sostanza (“avrei voluto fare il monaco, e invece”).
Il film segue la parabola del cachemire come si seguirebbe il destino di un materiale mitico. Dalla Mongolia – «quando pettini le caprette si addormentano, come i conigli della mia infanzia» – fino all’incontro newyorkese con Pressman, che acquistò un suo maglione a duecento dollari, aprendogli poi le porte di Barneys, tutto sembra il frutto di una mistica della materia più che di una strategia. Piovani con le sue musiche, lo riassume con una frase che dà ritmo a tutto il documentario: «Sono affascinato da chi realizza pezzi di utopie facendole diventare realtà».
Cucinelli, da parte sua, vive quel passaggio come un filo continuo: «La nostra anima ha bisogno di umanesimo, gentilezza e garbo». Lo dice con la calma di un uomo che ha passato la vita a domandarsi «come possiamo esser migliori» e che ha deciso di credere che l’anima sia immortale. «Se dopo la morte non sarà meglio per i buoni, io ho comunque vissuto meglio», aggiunge. Non tutto, però, è rarefatto e l’imprenditore conserva un gusto schietto per l’ironia. Ricorda Giorgia Meloni – anche lei arrivata alla prima del film nel nuovo cine teatro di Cinecittà, il più grande d’Europa - che gli chiede spesso dei consigli: «Prova a essere più gentile», le risponde lui, «poi che ne so, io faccio vestiti», per poi ridere quando parla di Gianluca Vacchi – anche lui nel film insieme con Oprah Winfrey e molti altri, tra familiari, amici d’infanzia e recenti, dipendenti e operai – «che dal vivo ha le sue qualità, è un altro Vacchi, ma non potrebbe mai entrare nei miei consigli di amministrazione, perché perderei tutto».
La leggerezza e il sense of humour sono importanti per Cucinelli, ma non cancellano il punto fermo, ovvero il lavoro come luogo umano. «Le fabbriche dovrebbero essere aperte e belle, dovremmo aprirle come luoghi», afferma. «Da noi, ci sono solo grandi finestre da cui poter vedere cosa accade fuori. L’offesa non è ammessa: se offendi qualcuno, sei licenziato. È la mia regola, vale per chiunque lavori per me e a qualsiasi grado». Il suo non è un manifesto, ma una linea morale. Tornatore, osservandolo da tre anni, dice che gli ha concesso una libertà insolita: «Si è comportato da morto: non è mai intervenuto».
Ed è proprio questa assenza, questa fiducia, che ha permesso al regista di costruire un ritratto quasi romano, nel senso classico del termine, cioè misurato, ironico e solido, tra Ovidio e Augusto, tra le rovine che restano e i gesti che fondano. Alla fine, quando Cucinelli ha ascoltato le musiche di Piovani a occhi chiusi, si commuove. «Bravo Brunello non me lo dico mai, non ne sono il tipo», ci confessa. Vorrebbe che un giorno, sulla sua tomba, fosse scritto: «Era una persona perbene», che è forse la frase più umile e più ambiziosa di tutte, perché nella sua visione quella non è una virtù semplice, ma una forma alta di responsabilità.
Il finale non cerca la celebrazione, ma arriva come una sospensione, con un uomo che parla di stelle e di fabbriche, di solchi e di cachemire, con la stessa naturalezza di chi ha attraversato epoche diverse senza cambiarne la grammatica interiore. Cucinelli sembra muoversi nel suo borgo come in una pagina già scritta, eppure ancora aperta. Non pronuncia sentenze, non consegna morali, ma ci indica soltanto un metodo fatto di disciplina, gentilezza e attenzione. È forse questa la nota conclusiva del film: non l’esempio, ma il dubbio fertile, non il modello, ma la domanda che resta, un invito alla lentezza di uno sguardo senza fretta di piacere che Tornatore raccoglie come un esercizio di contemplazione civile. Un invito, raro, a pensare che anche l’eleganza possa essere una forma di verità.
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