La vicinanza di una tribù per sopportare la morte, ma anche la vita. Non è solo la concezione di famiglia esposta nella seguitissima serie Netflix “Storia della mia famiglia” diretta da Claudio Cupellini, è anche l’idea che il protagonista Eduardo Scarpetta ha di un nucleo familiare. «Preferisco la famiglia logica a quella biologica, la famiglia si sceglie e la mia è sparsa nel mondo, anche per il mestiere che faccio, per cui sono sempre in giro», dice il talentuoso attore a L’Espresso. Il suo cognome non gli pesa, sta anzi dando continuità a una dinastia di attori di spessore, che ha già omaggiato nel film di Martone “Qui rido io” per cui vinse il David di Donatello. Oggi si divide tra teatro e serie tv, e dopo “L’amica geniale”, “Le fate ignoranti” e “Lydia Poet”, in “Storia della mia famiglia” interpreta un malato terminale pieno di vita e di energia.
Cosa l’ha spinta a interpretare Fausto?
«Ho amato subito la sceneggiatura, è una serie sincera, non patetica, sorprendente, in cui i bambini sono più risolti degli adulti. Il resto è arrivato con il lavoro con gli altri attori (tra cui Vanessa Scalera, ndr): ognuno di noi è stato equilibrato nel passarsi la palla, alcune chicche uscivano da improvvisazioni».
Le ha richiesto una preparazione più emotiva o più fisica?
«Ho pensato ai racconti che mi faceva mia madre del sangue nei muchi di mio padre Mario Scarpetta, venuto a mancare quando avevo undici anni. Ma sono stato sempre molto attento a non sovrapporre la vita personale con la finzione, e sono riuscito a tenere entrambe le cose separate. Nelle scene in ospedale chiedevo a un esperto dettagli sulla frequenza del respiro, ho lavorato molto sulla dispnea».
Ha cambiato idea sulla morte?
«Ci rapportiamo ogni giorno con la morte, esiste perché esiste la vita. Non bisogna essere tristi, ma alleggerire. Ecco perché il mio Fausto è il più vivo di tutti, nella commozione della consapevolezza che sta per morire, nelle sue indicazioni alla famiglia per prepararla all’assenza ci ho aggiunto un sorriso. La prende a ridere per alleviare a tutti la gravità di quello che lui stesso ha dentro. Anche io sdrammatizzo molto, del resto dramma e commedia sono intrecciati da sempre, pensiamo ai disagi del clown».
Famiglia per lei chi è?
«Quelle figure con cui mi sento a casa, protetto, con cui posso essere me stesso senza timore dei giudizi. Sono una persona molto solitaria, ma a volte non ce la faccio e so che c’è qualcuno su cui posso appoggiarmi, aprirmi al confronto senza scontro. Famiglia è il luogo sicuro che non perderò mai malgrado il tempo che passa, perché tra noi sappiamo che non è cambiato nulla, ci conosciamo e siamo casa».
Si fa un gran parlare oggi della cosiddetta famiglia tradizionale, che ne pensa?
«Sono etichette senza senso. Famiglia perfetta, famiglia diversa, che significa? Siamo tutti fallibili, la famiglia tradizionale madre-padre-figlio non è l’unica possibile: ci deve essere apertura e vicinanza nei confronti del prossimo, voglia di sacrificare un po’ di se stessi a favore di qualcun altro».
Da non padre, come si è regolato nell’interpretare la paternità?
«Stando attento a restituire un amore in - condizionato: i figli vanno protetti, non importa come e non importa quando, deve essere attivo e chiaro il canale dell’amore».
Ai figli il suo Fausto dice: «Abbiate fiducia degli altri, non perdete fiducia nell’umanità». Ci riesce lei?
«No, io non ho più fiducia nell’umanità».
«Da quando Bolsonaro chiese di bruciare l’Amazzonia. Mi sembrò incredibile, l’Amazzonia è il motivo per cui siamo vivi. Se c’è una materia che amo è la storia, il guaio è che non impariamo nulla dalla storia. La guerra non è mai finita, dalla Seconda guerra mondiale si è passati alla Guerra fredda, dalla guerra dell’America in Vietnam alle guerre di oggi. La guerra non è mai passata, anche se non siamo coinvolti direttamente, non siamo sul campo ma mandiamo aiuti, ci schieriamo da un parte e dall’altra… Non sono ottimista sul futuro dell’umanità».
Tre anni fa ha dedicato il suo David di Donatello a suo padre. Cosa cambiano i premi?
«Niente, solo la paga. Un premio è un bel traguardo, ma non significa sedersi sugli allori, solo che il tuo lavoro è apprezzato e stai prendendo una buona strada. Mi piace pensare che un premio non vada poi al singolo progetto, ma al percorso: 15 giorni prima dei David usciva la serie delle “Fate Ignoranti”, quindi avendo visto “Qui rido io” la giuria avrà pensato che non fossi un attore monocolore. Accettare progetti diversi porta a una responsabilità maggiore, io provo sempre tanta paura».
Paura?
«Certo, mi dà adrenalina e voglia di fare. Se non ti batte il cuore è meglio fare altro».
Si sente un artista libero nell’Italia di oggi?
«Non ancora. Una cara amica mi ricorda che non conosco il mio vero potenziale, potrei fare di più, espormi di più, ma non mi sento ancora libero di dire quello che voglio».
Perché?
«Se dici quello che pensi oggi ci si offende molto. Nel corso del tempo spero di essere sempre più libero, del resto più si acquisisce fiducia in se stessi più si può dire qualcosa agli altri».
Chi sono le sue maestre e i suoi maestri?
«Ho avuto una madre grazie alla quale sono quello che sono, si è vista costretta a farmi da madre e da padre quando ero bambino. Poi i miei maestri sono sparsi, anche in mezzo alla strada. Penso a Gigi Proietti, Walter Chiari, Daniel Day Lewis e Sanford Meisner, ma anche ai lavoratori onesti che fanno passare emozioni autentiche».
Nello spettacolo “Semidei” al Piccolo di Milano ha portato da poco in scena Achille. Con quali domande attuali?
«Il mio Achille è un bambinone sempre protetto da sua madre, non vuole crescere né andare in guerra, viene travestito da donna dalla madre e portato a Sciro per sfuggire alla guerra. Le domande sono sulla guerra in quanto distruzione: i vincitori vincono veramente? A che costo? Le macerie restano solo fuori o anche dentro?».
Fa teatro da quando aveva nove anni, il suo rapporto con il teatro oggi com’è?
«Bellissimo, rifiuto tante offerte per continuare a farlo. Preferisco il palcoscenico alla cinepresa. Sul set noi attori siamo trattati come cuccioli di labrador, ci offrono caffè, acqua, avocado del Guatemala, e questo può facilmente portare al divismo, cioè al famoso sentirsi “sto ca**o”. A teatro invece ci vai da solo, nessuno ti ci accompagna, ti porti il cibo da casa, devi sapere tutto a memoria, lavori con tutto il corpo e respiri la polvere buttato a terra. Bisogna rendersi conto che non si è nessuno e lavorare sodo».
Un vizio ce l’avrà, a teatro.
«Lo zenzero, mi rinvigorisce le corde vocali».
Perché i teatri sono sempre pieni e i cinema spesso no?
«Perché non saranno mai su piattaforma. Al grande schermo oggi si preferisce la comodità della visione a casa. Io non ragiono così, alcuni film vanno visti in sala, la meritano. Ma il teatro non morirà mai: altro che intelligenza artificiale, lo vedremo sempre fatto dall’uomo, la sua forza è che esiste solo lì, solo quella sera, e il pubblico di quella sera ci sarà solo quella sera».
Il sogno della vita?
«Resta la voglia di una compagnia Scarpetta, la mia stavolta, è il mio super obiettivo attoriale. Sto lavorando per quel fine lì».
