Il romanziere è un bugiardo, il poeta finge. Inganni e autoinganni popolano la letteratura. Molti si nascondono. E adesso dovremo vedercela con scrittori senza corpo

Volendo ripartire dai fondamentali, il poeta è un fingitore che finge così completamente da fingere che è dolore il dolore che davvero sente. La bugia è già un racconto, la finzione è una menzogna buona. Ogni narratore offre a suo modo la sua natura di impostore. La consapevolezza di esserlo può diventare bruciante, come in un racconto di David Foster Wallace, bellissimo e tragico, intitolato “Caro vecchio neon”, nella raccolta “Oblio” (Einaudi). Ma c’entra fino a un certo punto la passione per la scrittura: c’entra piuttosto una vita che l’io narrante, retroattivamente, rilegge come una sequenza di inganni e autoinganni. Sa che mentire è una spiacevole infrazione, vorrebbe essere limpido e onesto, ma non ci riesce. Senza inventarsi una maschera di perfezione e di riuscita, il senso di fallimento sarebbe ancora più gravoso. C’è tuttavia anche per lui, come per ogni impostore, un punto di rottura, uno scricchiolio che fa franare l’equilibrio. Accade per vie diverse in quello sconcertante romanzo dal vero che è “L’Avversario” di Emmanuel Carrère (Adelphi): dalla cronaca nera alla letteratura, la storia di un uomo che ha passato la vita a fingere, ad alimentare una identità fittizia. Povero, crudele Romand, che stermina la famiglia per uscire vivo dalla sua architettura di falsità. Non può essere casuale la fascinazione che gli scrittori sentono per i mentitori seriali: vedi quel falso “buono” di Enric Marco raccontato da Javier Cercas nelle pagine di un romanzo – straordinario – intitolato appunto “L’impostore” (Guanda). Meccanico, sindacalista e forse soprattutto affabulatore, riuscì a convincere il mondo di essere sopravvissuto a un campo di concentramento nazista: «La vicenda di Marco – commenta la sociologa Gabriella Turnaturi nel suo recente “Impostori” (Cortina) – fa riflettere su come, in ogni tipo di impostura o di affermazione carismatica, risulti vincente la capacità di comprendere e sentire ciò che gli altri desiderano, pensano e sognano». Qual è il punto di non ritorno di una menzogna? Quando un racconto bugiardo diventa insostenibile per chi lo offre al mondo e per chi lo raccoglie?

In un tempo di fake autorizzatissimi e virali, la linea fra vero e falso, tra verosimile e inattendibile si fa sempre più sottile e più labile. Chi tiene i piedi nell’universo letterario sa che in ogni angolo risuona la fatale domanda di Pilato a Gesù: che cos’è la verità? Il falso, se è d’autore, può risultare più vero del vero. Senza scomodare i proverbiali Protocolli dei Savi di Sion, basterebbe sfiorare la vicenda di quel Papiro di Artemidoro a cui Luciano Canfora ha dedicato anni di lavoro: per dimostrare che si tratta di un artificio tardivo realizzato da un avventuriero del secolo decimonono, e non dell’opera di un geografo risalente al I° secolo d.C.

Non c’è trucco non c’è inganno, dice il prestigiatore. Lo dice anche lo scrittore che esibisce una vita non sua. Lo pseudonimo, l’eteronimo, la vita parallela: ne sapeva qualcosa il Pessoa già citato, o quel Romain Gary che vince il premio Goncourt per i suoi romanzi ma con due nomi diversi, entrambi “de plume”. Ma forse più affascinante e perturbante è la vicenda, sul finire del ventesimo secolo, di J.T. Leroy, autore inesistente diventato di culto. La maggior truffa letteraria di sempre? Una venticinquenne con parrucca bionda si spacciava pubblicamente per lui, che in realtà era un’altra lei, Laura Albert, ben nascosta fino a un’inchiesta del New York Times. Oggi la vicenda farebbe meno effetto? Molti nomi di autori, anzi soprattutto autrici, in cima alle classifiche di bestseller italiani nascondono identità non dichiarate: vedi Karim B., di cui sappiamo per ora che è un’appassionata di vampiri e di Taylor Swift. Erin Doom e Felicia Kingsley non hanno all’anagrafe questi nomi e hanno a un certo punto mostrato i volti. 



Avrebbe voluto evitarlo, a suo tempo, J.K. Rowling, l’autrice di “Harry Potter”, quando finse di essere l’esordiente Robert Galbraith. Lei voleva godersi, legittimamente, un’esperienza liberatoria. Non è durata; e bisogna però dire che la rivelazione ha prodotto, nelle vendite, un +500mila per cento. La nostra Elena Ferrante mantiene il riserbo, che tutto sommato le giova in un’era di iper presenza. Dovrà e dovremo semmai vedercela con le identità generate dall’intelligenza artificiale, già in grado di modellare corpi e voci, quindi storie, di cantautori che non esistono. Non sarà implausibile scorrere il catalogo di un editore futuro fatto di scrittrici e scrittori senza corpo, senza carne e ossa, ma con un nome, una faccia e uno stile. I falsi scrittori sapranno maneggiare al meglio il falso-vero del romanzo? La posta in gioco resta comunque grandiosa. È «la chiave che apre le porte della verità», pur usando i meccanismi della finzione, come scrive ancora Cercas in un testo incluso in “Letteratura nei tempi inquieti” (Treccani). Facendoci scoprire che il cosiddetto “vero” è sempre sfaccettato, poliedrico, «che le cose possono non essere una sola cosa, ma una cosa e il suo contrario. Questo i fanatici non lo capiranno mai, e perciò i fanatici hanno sempre detestato il romanzo». 

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