La fine, la malinconia, l’amore. Un’esperienza personale si fa riflessione universale di speranza. Dopo “Cronorifugio” arriva il nuovo romanzo dello scrittore bulgaro

Georgi Gospodinov: “Il mio giardino sconfigge la morte"

Georgi Gospodinov è tra le voci più potenti originali della letteratura europea contemporanea. Bulgaro, è autore di romanzi, poesie e testi teatrali. Con “Cronorifugio” (Voland) ha conquistato pubblico e critica, vincendo il Booker Prize internazionale e il premio Strega europeo. In “Il giardiniere e la morte” (Voland), l’ultimo romanzo, affronta, con la delicatezza che lo caratterizza, il tema del morire. Trasformando il lutto personale in una riflessione universale sulla fine, la memoria, l’eredità di ognuno, Gospodinov racconta una storia di amore e malinconia.

 

In “Cronorifugio” lei si chiede se temiamo più la morte o morire. Ha trovato una risposta scrivendo “Il giardiniere e la morte”?

«Temiamo la morte perché la nostra coscienza non è capace di contenerla. Ma ciò che davvero fa paura è morire, perché è una parte della vita che svanisce. E chi sta morendo vive ogni passo di quel dissolversi. Ho visto quanto può essere doloroso il momento in cui la vita abbandona il corpo. Quanto sia forte quella battaglia».

 

In “Il giardiniere e la morte” il giardiniere si prende cura non solo della vita, ma anche dell’inevitabilità della morte.

«Davanti agli occhi del giardiniere vita e morte del giardino si alternano ogni stagione. Per lui la morte non è poi così spaventosa, fa parte del ciclo del giardino. Il tempo lì scorre in modo circolare, non lineare come per noi. Mio padre, che è stato giardiniere prima di diventare giardino, aveva vissuto tutto questo e diceva sempre che non c’è nulla da temere».

 

Suo padre è scomparso pochi anni fa. Questo romanzo è anche un modo per elaborarne la perdita?

«La perdita è al centro, certo, ma questo è un libro che racconta tante cose. La storia di quella generazione di padri nati subito dopo la Seconda Guerra. Delle loro sconfitte e della dignità con cui hanno continuato a vivere. È un romanzo sul morire e su come lo viviamo, sullo stoicismo davanti alla morte. E, infine, è un romanzo sui giardini, visibili o invisibili, che ciascuno di noi coltiva».

 

Un padre che muore, un mondo che muore. Cosa resta quando scompare un mondo intero?

«È una delle domande fondamentali del romanzo. Cosa significa morire in un mondo che sta morendo, un mondo molto cambiato e diverso da quello in cui sei cresciuto? Hai paura per i figli che lasci in questo mondo, e per i loro figli? Come viene vissuta la propria orfanezza da chi resta in questo mondo? Lascio che siano i lettori a trovare le loro risposte nel libro».

 

Se la morte è il giardiniere che pota la vita per far spazio a nuova crescita, cosa siamo noi nei nostri ultimi giorni - per noi stessi e per gli altri?

«Quando hai curato un giardino, piantato alberi e fiori, ti sei assicurato una forma speciale d’immortalità: la morte prende i giardinieri ma non i giardini; è la nostra piccola vittoria contro la morte. Nei suoi ultimi giorni, l’eroe di questo libro lotta con il dolore, cercando di non cedere. Racconta storie, dà le ultime istruzioni su cosa fare in giardino. Non può più alzarsi dal letto, e saluta così il mondo - senza rancore».

 

Quando si coltiva un giardino, scrive, si confida che qualcosa di invisibile lavori sempre sotto terra. Scrivendo, sente di coltivare qualcosa di invisibile che potrebbe fiorire dopo la sua scomparsa?

«Un libro è tanto simile a un giardino: si seminano parole da cui nascono storie, e ogni volta che il lettore ne apre uno, quando gli occhi si posano sulla parola scritta, avviene il miracolo, e allora le storie fioriscono. I narratori passeranno, ma le storie resteranno. Alla fine, restano solo le storie».

 

Dovremmo avere la stessa sensazione anche riguardo alla vita? Che ci sia qualcosa sotto terra che un giorno, se avremo curato il giardino, fiorirà?

«Se siamo buoni giardinieri e persone generose, io credo di sì. Dico generose perché il giardinaggio insegna questo: coltivi qualcosa che forse darà dei frutti per altri dopo di te. È un dono speciale, che dura nel tempo».

 

A proposito del prendersi cura degli altri. Lei di chi si prende cura? E chi si prende cura di lei?

«Mi piace lavorare con i giovani, incoraggiarli, aiutare chi comincia a scrivere. Quand’ero giovane che qualcuno mi chiedesse di leggere le mie poesie per me era importante. Mi prendo cura di chi ho accanto quindi, e loro si prendono cura di me».

 

La memoria nei suoi romanzi è un organismo vivente. Pensa che nelle sue distorsioni la memoria, e quindi la letteratura, sia più sincera della storia nei suoi fatti?

«La storia lavora con i fatti; ma ormai nemmeno quelli sono certi. La letteratura lavora con le persone. E per me è più importante la persona dei fatti».

 

Scrivendo, lei attraversa il dolore senza mai cadere nella disperazione. Malinconia e speranza: in che rapporti sono per lei - come autore?

«Non riesco a immaginare un altro modo di raccontare, o di vivere, che non sia quello che tiene insieme malinconia e consolazione, tristezza e piacere della vita. È il modo in cui raccontava mio padre, e si sente dalle sue storie in questo romanzo. Vorrei che i miei libri dessero un po’ di speranza e significato».

 

Nella sua vita intima?

«La tristezza è uno stato naturale se abiti il mondo con empatia e la speranza è lo sforzo di continuare a vivere nel mondo così com’è. È bene che queste due forze restino in equilibrio dinamico. Ecco, cerco sempre di tenerle in equilibrio dinamico».

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