Regine contro l’ignoto: il nuovo film di Klaudia Reynicke è una toccante lezione sul lasciar andare

Dopo aver incantato il pubblico del Sundance Film Festival nel 2024 e conquistato il Gran Premio della Giuria nella sezione Generation Kplus del Festival di Berlino, “Reinas” di Klaudia Reynicke, presentato in anteprima al Festival del Cinema Spagnolo e Latinoamericano La Nueva Ola, arriva sui nostri schermi. Al centro del racconto ci sono: un padre (Gonzalo Molina), che cerca di riparare alla latitanza come genitore con la leggerezza dei suoi espedienti e alcuni racconti improbabili; una madre (Jimena Lindo), che ha trovato lavoro negli Stati Uniti e vuole disperatamente andar via da Lima ma, per spiccare il volo, ha bisogno della firma dell’ex marito sui documenti; infine le figlie, Aurora (Luana Vega) e Lucia (Abril Gjurinovic). La prima, adolescente inquieta, tenta di ritagliarsi un’identità propria e spazi di libertà pericolosi; la seconda la segue come un’ombra con sguardi carichi di domande taciute e quelle verità taglienti che solo i bambini sanno pronunciare. Divise tra i desideri di una madre che cerca di proteggerle e l’affetto di un padre che si reinventa come può, pur di non deluderle, sono loro le regine del titolo — regine di un tempo che percepiscono come effimero e irrimediabile, ma anche regine di un futuro incerto che le costringe troppo presto a confrontarsi con l’urgenza di dover rinunciare a qualcosa di importante. In senso più metaforico è una dedica a tutte le donne che, in punta di piedi o con passo deciso, si trovano a traghettare l’esistenza oltre la linea dell’ignoto, tra paure, speranze e l’inevitabile rischio di commettere qualche errore. 

Sullo sfondo, il Perù dei primi anni Novanta, segnato dall’autogolpe del presidente Alberto Fujimori, soprannominato “El Chino” per le sue origini giapponesi e “Chinochet” per il clima di terrore instaurato. Il 5 aprile 1992, con il sostegno delle forze armate, Fujimori sciolse il Congresso, sospese la Costituzione e assunse pieni poteri, instaurando una dittatura, giustificata come “governo di emergenza e ricostruzione nazionale”. Il film, che trae ispirazione dalla storia personale della regista, ne restituisce l’atmosfera senza didascalismi o ​ giudizi politici espliciti. Si apre con un telegiornale che annuncia inflazione e rialzo dei prezzi; mostra black-out improvvisi, coprifuoco, posti di blocco, cortei per le strade; evoca la guerriglia del gruppo rivoluzionario di ispirazione maoista Sendero Luminoso; contiene alcune sequenze, come il mercato nero del cambio nel Jirón Ocoña – strada nel centro di Lima allora fulcro delle transazioni –  o la chiazza di sangue rimossa dal pavimento con indifferenza, che sembrano non contribuire allo sviluppo drammaturgico. In realtà sono tutti elementi che delineano un contesto di tensione costante, segreta inquietudine, pericolo in agguato, senza mai sovrastare la dimensione intima della storia familiare. Il clima di caos e violenza diffusa non è mai al centro della narrazione, ma ne innerva le dinamiche, rimanendo sullo sfondo, intrecciato alla vita quotidiana dei personaggi. 

 

Il contesto di crisi economica, politica e sociale, che determina l'imminente partenza per gli Stati Uniti, racconta l’esilio di tanti costretti a una scelta analoga e accompagna l’intimo cambiamento dei protagonisti. Il padre, figura di “adorabile perdente” – tassista, attore nei film di Roger Corman, agente segreto sotto copertura e tanto altro – ritrova se stesso nell’opportunità di lasciare andare le “sue” donne;​ la madre, troppo presa dalle sue scelte, riscopre quell’affettività che sembrava aver messo da parte;​ le due figlie toccano con mano le fragilità degli adulti e comprendono quale sia il prezzo della ribellione e di un distacco non voluto. I momenti più toccanti sono quelli più semplici e vitali: una gita al mare, le onde che sospingono i corpi a riva, un’emozionante corsa in auto tra le dune del deserto, una festa al lume di candela, in cui si canta e balla “Fiesta” di Raffaella Carrà: piccole cose che resistono anche quando scende il buio e tutto sembra restarne inghiottito. La regista Klaudia Reynicke ha dichiarato di non voler realizzare un film politico, ma una storia familiare ambientata in un contesto politico. Allo stesso modo non cede alla dimensione consolatoria della famiglia disfunzionale o del trauma della separazione di una coppia; offre una narrazione asciutta, minimalista ed ellittica, tenera e accattivante, filtrata attraverso la sensibilità dei protagonisti, mantenendo il focus sulla profondità dei legami emotivi, evitando la retorica. «Con i piedi per terra e la testa al cielo niente è impossibile» le parole in lingua quechua, richiamo alla civiltà degli Inca e al leggendario capo Atahualpa, sono la cifra del tono del film ed esprimono tutta la levità malinconica della nostalgia in un congedo che ne suggella la conclusione.

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