Amici lo sono davvero, e da molto («Dagli anni Novanta? O forse era ancora la Dolce vita?», scherzano). Uno legge le cose che scrive l’altro, prima che diventino libri. L’altro gli invia bozzetti, idee in forma di disegno, prima di considerarli finiti. Hanno un nemico comune: l’esibizionismo. Sono inclini al silenzio e all’ironia. Condividono l’arte dell’improvvisazione. Coltivano un’ossessione: non annoiarsi mai, in quello che scrivono, in quello che disegnano.
Uno è Lorenzo Mattotti, illustratore e artista tra i più riconosciuti al mondo. L’altro è lo scrittore Claudio Piersanti, che con i suoi tanti romanzi e una lingua preziosa ritrae da decenni la quotidianità di uomini e donne alle prese con solitudini, sensi di colpa, emozioni sempre impegnate in un corpo a corpo col pudore. Come in “Quel maledetto Vronskij”, “Il ritorno a casa di Enrico Metz”, “La forza di gravità”. Come nell’ultimo libro, “La finestra sul porto”, pubblicato da Gramma Feltrinelli: una storia d’amore e d’amicizia, con un protagonista – un avvocato di mezza età, solitario e abitudinario, in una città di provincia sul mare – che coltiva segreti. Minimi però – come una casa dove rifugiarsi, dove tutto è rimasto intatto – ma necessari: rituali che aiutano a vivere. Lorenzo Mattotti interpreta la storia e firma la copertina: un intreccio intimo di azzurri. «Claudio mi ha mandato il suo scritto», racconta: «L’ho trovato estremamente affascinante e ho subito pensato a un disegno che avevo nei miei quaderni, in una serie chiamata “Le stanze intime”. Ne ho scelto una, ho detto: questa è lei, per me».
Lei è Maria, il personaggio femminile del libro; l’avvocato Roberto Clemente se ne innamora. Piersanti, l’ha riconosciuta subito?
Claudio Piersanti: «Sì, era proprio lei, perfetta. Anche se, come accade con tutti i miei personaggi, non è mai descritta esattamente perché mi piace che ognuno la immagini come vuole, la ragazza disegnata da Mattotti era perfettamente compatibile. Lo era soprattutto la situazione, quell’intimità, quel chiacchierare col riflesso del mare: l’azzurro che domina sembra provenire proprio da una finestra che dà sul porto. È diventata la mia copertina con naturalezza estrema».
Era già accaduto con “Stigmate” firmato da tutti e due, uscito per la prima volta da Einaudi nel 1999 e riproposto una decina d’anni dopo da Logos Edizioni. E con “L’eremita” (Terre di Mezzo editore).
C. P.: «C’è una complicità amichevole tra noi, più che un rapporto professionale. La nostra collaborazione nasce dal puro piacere di fare le cose insieme. Mattotti legge sempre quello che io scrivo, e lui manda a me i lavori ai quali sta lavorando. Ci inseguiamo da molti anni. Per “Stigmate” mi mandò il disegno via fax, come si faceva allora: dall’apparecchio venne fuori questo ciccione malavitoso, tatuato, spaventoso, proprio quello che avevo in mente anche se fino ad allora non sapevamo esattamente cosa avremmo fatto. Questa è una cosa che ci unisce. Lorenzo ha la mia stessa natura di improvvisatore, è un avventuriero dell’'immagine, si butta dentro alle cose e ne inventa di pazzesche».
Ma come è nata la vostra amicizia?
Lorenzo Mattotti: «All’inizio degli anni Novanta, credo, o forse prima, alcuni amici mi parlarono di lui; io avevo comprato un suo libro di racconti, “L'amore degli adulti”, che mi aveva colpito molto. E sapevo che anche lui a Parigi era entrato in una libreria e aveva comprato un mio portfolio di immagini. È stato un interesse incrociato. A me incuriosiva l’idea di lavorare anche con scrittori. Ci siamo incontrati e abbiamo scoperto molte cose in comune: che entrambi eravamo figli di militari, ad esempio, tutti e due avevamo un po' girato il mondo. L'occasione per fare qualcosa insieme è venuta quando mi hanno chiesto una storia sulla religione, sul ritorno di Dio. Con Claudio avevamo parlato di misticismo, e allora è venuta l’idea di “Stigmate”, anche se lui pensava più a una figura di impiegato, io a un post-punk. Lavorare insieme è stato proprio entusiasmante, magico. Così abbiamo preso a frequentarci. A Bologna, a metà strada tra il Friuli dove vivevo in quel periodo io e le Marche. E l’amicizia è cresciuta. Ci mandiamo un sacco di messaggini anche oggi, ci aiutiamo nelle nostre depressioni, nei momenti di vuoto. Abbiamo uno sguardo molto distaccato dalle cose e condividiamo un grande amore per il lavoro. Claudio mi fa scoprire libri, io gli mando i miei disegni…».
È capitato anche il contrario: che lei abbia chiesto a Piersanti di scrivere sui suoi disegni?
L.M.: «Sì. C’è un libro che in Italia non è mai uscito, si chiama “Anonymes” ed è una serie di ritratti immaginari di donne. Donne create dalla memoria, persone incontrate nel metrò, occhi incrociati per la strada. Chiesi a Claudio di accompagnare queste immagini con i suoi testi. È un libro che ha 25 anni (edito da Seuil, Ndr.)».
I protagonisti di Piersanti sono spesso uomini che si estraniano, che vivono esperienze di romitaggio non solo tra montagne ma anche nella routine di contesti urbani, coltivando isolamento e segreti. Anche in questo romanzo i segreti sono centrali: la casa, la relazione con Maria, la morte di Piero. Che cos’è il segreto per voi, e come si racconta?
C. P.: «Il segreto è qualcosa di cui abbiamo bisogno. Questo tratto del personaggio è legato a un sentimento tragico – che talvolta vivo io stesso – di incapacità e impossibilità di comunicare agli altri i propri pensieri. La disperazione amorosa di questo avvocato, un uomo solo che non riesce più a parlare con gli altri perché è convinto che non lo possano capire, è una costante dei miei personaggi. Il suo non è un segreto rivoluzionario. È una solitudine che trova in questa donna una compensazione: con lei riesce a parlare, lei entra nel suo segreto. E il mondo attorno a loro non esiste più: non c'è più comunicazione con gli altri».
La storia d’amore nasce dal tradimento di un’amicizia: è così?
C.P.: «Succede con dolore, ma è proprio così: il protagonista se ne vergogna. Un altro contenuto del libro è il senso di colpa. Però quello precedente era un rapporto di coppia in crisi, mentre l’attrazione reciproca tra i due protagonisti nasce sin dal primo istante del loro incontro».
L. M.: «Tutti abbiamo i nostri segreti nascosti. Con il disegno si può certamente creare un segreto, ma io credo che già il disegno in sé lo sia. Un disegno mantiene dentro delle cose che io vi ho proiettato ma che il lettore non legge. Credo che disegnando si creino sempre scrigni, enigmi. Mentre lo faccio so quello che sto mettendo dentro le immagini, ma lo medio attraverso le forme, divertendomi a nascondere il vero significato. Perché se ho dei segreti sono miei, fanno parte del mio essere. Forse i sensi di colpa vengono proprio dall’impossibilità di essere completamente trasparenti, perché saremmo disarmati. A volte il segreto nasconde l'oscenità, la paura di essere oltre le linee, oltre le cose».
L’arte è un modo per nutrire o esorcizzare i segreti?
L.M.: Sì, e per un periodo specialmente ho coltivato questo scavare dentro di me, nei miei segreti. Sono venute fuori cose oscene, violente, dure, ma anche dolcissime, estremamente disarmate».
Invisibili agli altri?
L.M.: «Assolutamente, ma ognuno ha il dovere di compiere questo lavoro di scavo dentro di sé. Mentre io disegno non so cosa verrà fuori ed è questo che mi affascina perché proprio disegnando tiro fuori aspetti di me che non conoscevo. Tutti abbiamo un mostro dentro, sono loro i nostri segreti. Per fortuna noi abbiamo la nostra arte, che ci permette di guardarli in faccia e di affrontarli».
Ci sono tanti sogni ne “La finestra sul porto”, sogni che annunciano di continuo delle cose. Una dimensione non certo casuale.
C. P.: «La dimensione del sogno è molto letteraria: il sogno è la cosa più simile alla letteratura. Anche i miei personaggi quando iniziano a esistere davvero entrano nei miei sogni. Sono proiezioni di me, mi rivelano segreti che non conosco neanche. Il sogno è l’incontro con l’inconscio, che ha molto a che fare con la scrittura, soprattutto come la intendo io: è un’avventura. Non ho mai scritto una scaletta in vita mia, la trovo una cosa volgarissima e mi dispiace quando vedo i più giovani spinti a farle. Se io sapessi già dove vado a parare quando scrivo non scriverei più. Sarebbe di una noia mortale. Come quando facevo lo sceneggiatore e scrivevo ciò che già sapevano tutti. Non è la letteratura che voglio fare io. Perché, invece, il contrario è bellissimo: è come salire su una nave e non sapere dove sia diretta. Per me la letteratura è Joseph Conrad, universi fatti di mare, d’infinito, senza punti di riferimento se non la solitudine che hai in testa. Io non so andare per mare, assolutamente, il mio modo di farlo è il sogno ».
L.M.: «Anche per me è così. L’improvvisazione nel disegno è una delle cose che cerco sempre, ed è ciò che mi dà più gioia. Nel mio lavoro ci sono tempi lunghi, penso ai sei anni passati a lavorare alla sceneggiatura de “La famosa invasione degli orsi in Sicilia”: è stata una tortura. Tenevo sempre accanto a me dei quaderni per i miei grandi disegni, non sapevo mai cosa sarebbe venuto fuori e dove mi avrebbero condotto: ma mi hanno salvato la vita. Perché cominciare un disegno e, come diceva Claudio, andare in mare aperto facendoti trascinare da quel segno, da quella forma, da quella idea, è magia. Si instaura un dialogo tra te e la linea fatto di memorie, di sguardi. Un rapporto empatico con segni che incominciano a vivere, a creare forme che non avresti sospettato. Sono momenti bellissimi, ed è ciò che cerco di fare sempre di più».
Due jazzisti. È per questo che andate così d’accordo?
L.M: «È per tutto questo che mi piace lavorare con Claudio, ma è difficilissimo trovare un progetto, qualcosa che ci affascini completamente e che ci consenta un lavoro d’improvvisazione».
C. P.: «Abbiamo un'asticella molto alta che vale per ogni cosa, per quello che leggiamo e che guardiamo».
È una sfida continua alla noia, la vostra: respingere la prevedibilità. Sorprendere, facendo cose molto diverse.
C. P.: «Lo scrittore non può annoiare, mai. Può essere triste, può infastidire, ma la noia è imperdonabile. E così nessun artista può annoiare: può traumatizzarti, scandalizzarti, farti schifo, ma annoiarti no. La noia è il mio nemico in tutto ciò che faccio, persino quando guardo la tv: ecco perché comincio diversi film contemporaneamente».
L.M.: «Anch’io appena sento che l’energia crolla ho necessità di cambiare. Per carità, i nostri sono anche lavori di artigianato, a volte ricreare è necessario, ma quando incomincio a lavorare su quello che non so scatta un’energia diversa, un senso di meraviglia, l’esplorazione di un rischio che ha tutto un altro gusto. E c’è una responsabilità in questa ricerca di energia, perché la diamo agli altri. Cioè, noi siamo responsabili di ciò che trasmettiamo agli altri. Il lettore capisce se c'è qualcosa di potente e forte dentro ciò che legge oppure no: se c’è un’energia negativa nei miei disegni, se gli ho dato solo stanchezza. Mi sento in colpa se faccio un lavoro in cui mi sono annoiato, perché sono certo che il lettore se ne accorgerà. Questa è una responsabilità verso gli altri che sento sempre. E che avverto subito anche quando leggo gli scritti di Claudio: sin dalle prime parole entro dentro il flusso raffinato della sua scrittura, ed è naturale come l’acqua che scorre».
(l'illustrazione in alto è di Lorenzo Mattotti, fa parte della serie "Stanze intime", è pubblicata nel libro "Città, incroci, amore e tradimenti", Logos Edizioni 2022)
