Il film più libero girato in Italia da molto tempo in qua entra e esce dal carcere in continuazione. Ma soprattutto entra ed esce dal corpo delle sue protagoniste per tirarne fuori l’anima. “Fuori”, del resto, è il titolo scelto da Mario Martone e Ippolita di Majo, che con lui lo ha scritto e ancor prima pensato, per dare cittadinanza definitiva alla scrittrice più maledetta del nostro Novecento, Goliarda Sapienza. La più maledetta e la più necessaria, vista la luce abbagliante che getta su alcuni punti cruciali del nostro presente, benché sia scomparsa a 72 anni nel 1996. Lasciandoci in eredità, oltre a molti inediti, una voce così singolare che solo oggi risuona in tutta la sua potenza. Tanto da aver portato “Fuori” a Cannes, unico italiano in concorso.
«A Goliarda pensavamo dai tempi di “Capri Revolution”», racconta Martone. «La pastorella analfabeta che tiene testa a artisti e intellettuali ha qualcosa di lei. Ma “Fuori” non esisterebbe senza l’intuizione di Ippolita. È stata lei a sorprendermi, prima adattando per la scena la storia della sua psicoanalisi, “Il filo di mezzogiorno”, interpretato da Donatella Finocchiaro e Roberto De Francesco. Poi concentrando il progetto biografico originario in uno scorcio di tempo brevissimo ispirato ai due libri chiave della scrittrice, “L’università di Rebibbia” e “Le certezze del dubbio”».
Nel frattempo accadono due cose fondamentali. Valeria Golino trasforma in una serie tv di grande successo “L’arte della gioia”, l’incandescente romanzo postumo di Goliarda Sapienza. Quindi torna sul set con Martone per incarnare proprio lei, la scrittrice finita in galera nel 1980 per aver rubato i gioielli a casa di un’amica-amante aristocratica e tirannica. «Un gesto dostoevskiano», commentò Elsa Morante. «Una deliberata provocazione», taglia corto Martone, «concepita per punire il suo ambiente oltre che la sua amante» (nel film Carolina Rosi, la scena del furto è folgorante). Ma anche per andare in carcere. Esperienza che la scrittrice, figlia di due eroi dell’antifascismo, l’avvocato Giuseppe Sapienza e la sindacalista Maria Giudice, oscuramente desiderava da sempre, Un po’ per pareggiare i conti con quei genitori ingombranti e perseguitati. Un po’ per sperimentare una libertà sconosciuta entrando in contatto con mondi, classi, linguaggi, altrimenti inaccessibili.
«La figura di Goliarda Sapienza è esplosiva perché inclassificabile», riprende Martone. «Non rispetta nessuna griglia intellettuale o politica», rincara di Majo. «Ti mette sempre sotto gli occhi cose nuove o le guarda diversamente». Contagiando non solo noi spettatori, ma le nuove amiche conosciute in gattabuia, Roberta e Barbara, che torna a cercare appena esce (Matilda De Angelis e Elodie, stupefacenti). Che sia una domanda spiazzante, una fuga attraverso Roma su un’auto rubata o un’imprevista doccia tutte insieme, nude e gioiose, “Fuori” vive dall’inizio alla fine di questa energia febbrile. O dovremmo dire femminile?
«Non so», riflette Martone, «Per me sono anzitutto esseri umani, persone. Vedo in Goliarda molti punti di contatto col Caccioppoli del mio primo film, “Morte di un matematico napoletano”: inquietudine assoluta, allergia alle regole, tendenze suicide...». Ma Ippolita di Majo non ci sta. «Sono donne, sempre. La loro intimità totale deriva dall’aver condiviso la cella e i bisogni più primari. Ma le loro parole, il loro eros sono femminili. Lo vediamo quando Roberta racconta a Goliarda il suo sogno d’incesto (qui la sceneggiatrice ha un lapsus stupendo: anziché incesto dice incenso), con imbarazzo e naturalezza insieme, fuori da qualsiasi ideologia». Con il corpo, insomma, ancor prima che con la mente.

«Tenevo molto, anche per ragioni personali, a questa Roma a cavallo fra anni Settanta e Ottanta, scoperta quando da Napoli venivo a vedere Carmelo Bene o Leo De Berardinis. Ma tutto, da piazza del Popolo alla Stazione Termini ai Parioli, con la loro aura metafisica, è ripreso dal vero tranne i due bar di piazza Euclide - fondamentali, da lì parte il viaggio in una Roma diversa e sotterranea - che abbiamo dovuto ricostruire. Anche girare nella vera Rebibbia, dove il 30 maggio presenteremo il film con una proiezione speciale, è stata dura. È un periodo difficile per le carceri, mi dicevano, scordatelo. E invece. Ci siamo riusciti anche grazie a Francesca Tricarico, il nostro Virgilio, regista che nelle carceri lavora. Abbiamo organizzato laboratori teatrali, formato le attrici, usato detenute e ex detenute come comparse o in piccoli ruoli. Le ex detenute in studio, una volta uscite dal carcere non possono rientrare», racconta Martone, che nel suo cursus honorum capitolino, oltre alla gestione del teatro Argentina, vanta anche una lunga amicizia con Sergio e Franco Citti. «C’è molto Pasolini in “Fuori”, La profumeria di Barbara/Elodie è all’Acqua Bullicante, zona pasoliniana per eccellenza. Ma pesa, eccome, anche la presenza di Luisa De Santis che canta dietro le sbarre “Sinno’ me moro”, la canzone scritta con Gabriella Ferri».
Molte altre cose colpiscono in “Fuori”. Una è la capacità di tenere sullo sfondo l’ombra del terrorismo, evocandolo senza farsene fagocitare. Un’altra la marginalità dei maschi. C’è l’istrionico Albert, autista devoto e forse amante di Roberta (esilarante Antonio Gerardi). C'è una scena chiave con Francesco Gheghi, a proposito di fantasie incestuose, cameriere alla stazione Termini. Mentre Francesco Siciliano è un editore a cui Goliarda rivolge una battuta profetica. E a Corrado Fortuna tocca l’unico ruolo importante. Quello di Angelo Pellegrino, marito della scrittrice, 22 anni meno di lei, oggi curatore delle sue opere e autore di scritti e testimonianze di amorosa esattezza (ultimo “Goliarda”, Einaudi). Un filologo classico che si è mantenuto facendo il caratterista in film di serie C. Anche lui fuori da ogni schema e prezioso per il film, girato in buona parte nella loro casa ai Parioli.

Figure benevole e periferiche, estranee al nucleo più intimo della scrittrice «fatto di libertà e ferocia», ricorda Martone. Due parole «suggerite dall’unico vero cambiamento in corso ai nostri tempi, quello femminile. Una rivoluzione che per dirla con Saint-Just non guarda in faccia a nessuno, come la lava di un vulcano, ma prepara un terreno nuovo». Sarà per questo che la persona e l’opera sono state così a lungo sminuite se non derise? La scena d’archivio che scorre sui titoli di coda, un programma tv del 1983 condotto da Enzo Biagi che vede la scrittrice parlare di carceri circondata da grandi intellettuali, ovviamente maschi, che la guardano con sufficienza se non peggio, mette a disagio. C’è voluto tempo ma il vaso di Goliarda ormai è aperto. Sarà difficile richiuderlo.