Il mistero che circonda il Tesoro Savoia continua a sollevare polemiche. Nonostante la sentenza del Tribunale di Roma abbia rifiutato le istanze dei Savoia, il Principe Emanuele Filiberto torna a chiedere chiarezza sulla presunta “collezione sfoltita”. In assenza di verifiche ufficiali e di trasparenza, la necessità di un controllo pubblico e indipendente rimane fondamentale. L’erede dei Savoia avverte: “Proseguiremo con determinazione il ricorso presso la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo”.
29 luglio del 1900: re Umberto I viene assassinato a Monza. Pochi giorni dopo, la regina Margherita consegna alla nuora Elena un cofanetto di gioielli corredato da una lista dettagliata: 6732 brillanti, oltre 2000 perle. Nasce così il “tesoro della Corona”, custodito per decenni nella cassaforte n.3 del Quirinale e oggi al centro di una delle vicende più controverse dell’Italia repubblicana. Durante la Seconda guerra mondiale, con l’Italia occupata dai nazisti e la monarchia al collasso, i preziosi vengono messi temporaneamente al sicuro. Il re Vittorio Emanuele III ordina il trasferimento alla Banca d’Italia, temendo che cadano in mani tedesche. Un nascondiglio segreto nei sotterranei del Quirinale salva il tesoro da Hitler. Ma il vero enigma si apre dopo la guerra. Nel giugno del 1946, con la proclamazione della Repubblica, i Savoia lasciano l’Italia. I gioielli rimangono in custodia nella Banca d’Italia, ma non vengono mai ufficialmente confiscati: un semplice verbale attesta il deposito come “temporaneo”. Da allora, nessuno li ha più visti. Nessuna verifica. Nessuna apertura pubblica della cassetta.
Nel 1976, dopo voci sempre più insistenti su presunti furti, viene autorizzata un’apertura straordinaria. Presenti all’ispezione, due autorità del settore: Gianni Bulgari e Tito Vespasiani. È il momento della verità. Quando il cofanetto viene aperto, però, non è il valore a stupire, ma la sua modestia. Pare che Gianni Bulgari abbia esclamato: “Possibile che il tesoro della Corona del Regno sia questo qui?”. Anche Vespasiani, allora presidente degli orafi romani, confermò: il valore stimato era di poche centinaia di milioni di lire. Un’inezia rispetto ai 300 milioni di euro ipotizzati oggi da alcune rivalutazioni. Da allora, l'espressione “collezione sfoltita” entra nel lessico di chi indaga sulla vicenda. Il Principe Emanuele Filiberto di Savoia prende posizione, chiedendo chiarezza e trasparenza sulle condizioni della collezione.
Principe, perché i gioielli si trovano in Banca d’Italia?
"I gioielli della Corona furono depositati presso la Banca d’Italia nel giugno del 1946 a scopo di custodia temporanea, come risulta dal verbale firmato da Falcone Lucifero, ultimo Ministro della Real Casa. Non furono né ceduti né confiscati. Si trattò di un gesto di responsabilità da parte della Famiglia Reale, in un momento delicato della transizione istituzionale, nella convinzione che sarebbero stati restituiti una volta ristabilito un clima di serenità e giustizia".
Quindi erano beni privati? Quali erano le intenzioni di suo nonno?
"Re Umberto II non ha mai formalmente rinunciato ai beni privati della Dinastia. Al contrario, il suo desiderio era tutelarli e trasmetterli alle generazioni future, nella convinzione che un giorno si sarebbe ristabilita una forma di equilibrio e riconciliazione. È importante ricordare che, nei giorni successivi al referendum, il Presidente del Consiglio Alcide De Gasperi lo rassicurò, dicendo che si trattava di una situazione temporanea: la Corte di Cassazione era ancora riunita per esaminare e validare i risultati del voto, e il rientro del Re in Italia era previsto entro poche settimane. Ma poi, nella notte tra il 12 e il 13 giugno 1946, avvenne quello che molti storici e giuristi definiscono un colpo di Stato istituzionale: la Repubblica fu proclamata in via unilaterale, prima della sentenza della Suprema Corte, violando apertamente la legalità costituzionale. In quel clima gravemente irregolare, Re Umberto II affidò i gioielli alla Banca d’Italia non come rinuncia, ma come atto di responsabilità verso il Paese, certo che la giustizia sarebbe prima o poi prevalsa".
C’è una grande polemica: non ci sarebbero prove ufficiali che la collezione sia integra. Lei cosa pensa?
"È vero che nessuno ha mai potuto accedere alla cassetta per verificarne il contenuto, e questo genera preoccupazione. La mancanza di trasparenza alimenta dubbi legittimi, anche perché non è mai stata fornita una rendicontazione ufficiale, né consentita una verifica alla famiglia. Le voci su una collezione “sfoltita” sono inquietanti. Noi chiediamo semplicemente chiarezza. Serve una verifica pubblica, con esperti indipendenti, per mettere fine a decenni di silenzio e ambiguità".
Il Tribunale di Roma ha espresso che la titolarità dei gioielli non è di Casa Savoia, cosa farete?
"Proseguiremo con determinazione il ricorso presso la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Non si tratta solo di una controversia patrimoniale, ma di una violazione grave dei diritti fondamentali sanciti dalla Convenzione Europea: il diritto alla proprietà, alla difesa e a un ricorso effettivo. Il sequestro dei beni avvenuto nel 1946 fu arbitrario, collettivo, e ha colpito persino chi – come il sottoscritto – non era ancora nato. Oggi, è tempo che l’Europa prenda atto di queste ingiustizie. Non cerchiamo privilegi: chiediamo solo rispetto per la verità storica e giuridica".