Comoda nelle stanze dei bottoni, dirige  holding transnazionali, prospera dietro ai blitz sui soliti noti. È la nuova mafia che torna all’antica negli “Immortali” di Attilio Bolzoni

Dove si è nascosta? Quale maschera si è messa? Come si riconosce? Cos’è diventata? Dalle stragi sono passati più di trent’anni e la Sicilia si mostra felice, esotica, un’isola da cartolina. Palermo è tornata Palermo: lontana, silenziosa, seducente con tutti i suoi piaceri e i suoi misteri. Comandano sempre i vecchi padroni, sono sempre gli stessi. Sembrano eterni. Concedono udienza come i pascià sui divani damascati del Grand Hotel et des Palmes, fra gli specchi e gli stucchi si racconta di scene antiche, di un passato che avevamo quasi dimenticato.

 

 

Non si spara più e ci dicono che lo Stato ha vinto. Ogni 23 maggio e ogni 19 luglio, i giorni della morte di Falcone e Borsellino, si ripete stancamente il rito. Celebrazioni, fanfare, pennacchi, carabinieri a cavallo. Di tanto in tanto solo qualche antipatico contrattempo. Una volta è il sindaco voluto da un condannato per mafia che diserta la cerimonia, un’altra è la polizia che carica con i manganelli i sindacalisti e gli studenti di un pacifico corteo dei movimenti antimafia. A Palermo non si spara più perché non ce n’è più bisogno. E poi quei nomi che s’inseguono all’infinito, Totò Riina e Bernardo Provenzano, Totò Riina e Leoluca Bagarella, Totò Riina e i resti di quella cosca priva di quarti di nobiltà mafiosa.

 

 

Nessun altro sopra o insieme, le colpe degli attentati dell’estate 1992 addossate solo e soltanto a loro. È una fiaba che rassicura perché in mezzo c’è il nulla che scagiona tutti, favoreggiatori e indifferenti. C’è il bene e c’è il male, ci sono i buoni e ci sono i cattivi. L’ultimo dei cattivi l’hanno preso nel gennaio del 2023. Per più della metà della sua esistenza Matteo Messina Denaro ha vissuto a casa sua, tranquillamente in latitanza. Una cattura senza stress, senza tensione, inodore e insapore, direi una cattura perfetta, asettica, seguita da proclami trionfanti e cronache ubbidienti. Si sono ben guardati dal far sapere agli italiani che, contrabbandato come un capo dei capi, era un mafioso quasi morto di una mafia già morta. I boss, piccoli o grandi, cadono quando non servono più. È il loro destino. Con lui è caduto anche il mito di una generazione criminale dannata, quella che voleva far inginocchiare lo Stato ai suoi piedi. Era arrivata dal niente e dal niente è stata ingoiata. E con loro la Corleone che, per tutto ciò che ha significato e causato con i massacri, sarà cancellata dalle mappe mafiose per i prossimi mille anni. 

 

 

Ma per una mafia che se ne va ce n’è sempre una che viene. E così quella siciliana, dopo i lutti e le tragedie, dopo una repressione poliziesca e giudiziaria che non ha precedenti dall’Unità d’Italia, ha cominciato lentamente e faticosamente a riappropriarsi del suo Dna, della sua vera natura, facendo semplicemente ciò che aveva sempre fatto prima dei suoi delitti eccellenti: accumulare ricchezza con la politica e la pubblica amministrazione, corrompere, infiltrarsi nei gangli istituzionali, truccare appalti, chiedere e offrire protezione, trattare con gli apparati, aggiustare processi, controllare i territori, condizionare i mercati legali, intimidire, intossicare, ricattare.

 

 

La mafia è tornata mafia. Ma quale faccia ha? Se dovessimo prendere per buone le versioni dei mattinali di polizia che ci informano sulle retate degli ultimi dieci anni, ogni giorno ne ha una diversa. È quella stravecchia di Settimo Mineo, acciaccatissimo ultraottantenne che viene presentato da qualcuno come pretendente a governare la Cupola? È quella insolente di Leandro Greco, rampollo della famiglia di Ciaculli che, nel mito e in onore di suo nonno detto «il papa», come soprannome ha scelto proprio Michele? È quella ormai sbiadita di Giovanni Motisi di Pagliarelli, che nessuno ha più visto dal 1998 e che probabilmente è morto, anche se figura nell’elenco «dei latitanti di massima pericolosità» del ministero dell’Interno? È quella rassegnata degli «scappati» di Passo di Rigano e dell’Uditore, gli Inzerillo e i Gambino, che sono ricomparsi in Sicilia dopo l’esilio americano per salvare la pelle durante la mattanza del 1982?

 

 

Un mio amico poliziotto, che conosce bene la materia per averla investigata a lungo, chiama «mafia degli emarginati» le consorterie malavitose che prosperano ancora nei quartieri di Palermo. Sopravvivono con le estorsioni, qualche traffico di stupefacenti, usura, pacchetti di voti comprati e venduti alle elezioni amministrative, modesti appalti nel movimento terra. I suoi capi sono capi solo nei loro piccoli regni. Ma è questa la mafia che ha rimpiazzato l’altra? E quale corrispondenza c’è, quale collegamento fra le immagini televisive dei boss straccioni e ammuffiti che ci vengono fatti vedere in tv dopo ogni blitz e gli scenari globali delineati dagli esperti nei convegni e nei think tank?

 

 

Quale legame fra il sangue e la merda delle borgate e la Mafia 3.0 o la Mafia 4.0, le criptovalute, il cybercrime, i facilitatori che gestiscono transazioni internazionali da località off shore o quelli che adesso vengono indicati come «gli artisti del riciclaggio» con base alle isole Cayman, a Macao, a Curaçao? Evocano tutti il «metodo Falcone» e la famosa frase del giudice, follow the money, segui il denaro, ma se andiamo a controllare quante grandi inchieste sui soldi sporchi sono state avviate e concluse in Italia dalla morte di Falcone, probabilmente non arriveremmo a contarle sulle dita di una mano.

 

 

Più ci siamo allontanati dall’estate delle stragi e più la mafia identificata ufficialmente come mafia si è scolorita, somiglia sempre di più alla criminalità comune, è diventata sempre più un alibi per uno Stato che ha dimostrato capacità di disarticolare le strutture militari di Cosa Nostra, ma non di colpirla al cuore.

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