Il potere della finzione contro il potere della menzogna. Il fascino e la ricchezza della parola letteraria contro l’omologazione e l’appiattimento del linguaggio. E la passione, l’entusiasmo, la capacità di irridere contro il calcolo, la strategia, la propaganda. «Uno scrittore non può avere un cuore raffreddato», scriveva il giornalista e anarchico svedese Stig Dagerman: non può evitare, cioè, di porsi il problema del tempo in cui vive e astenersi dal prendere posizione. Non per replicare a inganni e disinformazione con la certezza di risposte inoppugnabili: ma per alimentare dubbi, porre interrogativi, nutrire spirito critico. E però: quale spazio ha oggi la parola scritta? Quanto la letteratura può rappresentare ancora una forma di potere alternativo a quello politico, scudo contro oligarchie che colonizzano il mondo e lo indirizzano verso decise trasformazioni, drammatiche persino?
Sono le domande al centro della tredicesima edizione di Salerno Letteratura, in programma fino al 21 giugno con il titolo “In faccia ai maligni e ai superbi. Letteratura come contropotere”. Curato da Gennaro Carillo, Paolo Di Paolo e Daria Limatola per la Sezione Ragazzi, il festival si è aperto con una lectio della scrittrice Melania G. Mazzucco e ha per protagonisti grandi nomi della scrittura contemporanea: dall’israeliano Roy Chen alla palestinese Adania Shibli, dall’autore americano del monumentale “Diluvio” Stephen Markley al Premio Goncourt Kamel Daoud (in collegamento), voce critica perseguita da un mandato d’arresto del regime algerino.
Scrittori e scrittrici autorevoli, coraggiosi, che con i loro lavori si rivelano scomodi per il potere: «Da sola, la letteratura non può cambiare le cose, ne siamo consapevoli. Ma può diventare un contropotere, altrimenti non si spiegherebbe perché sia perseguitata ovunque. Il potere della critica fa paura, anche in Italia: basti pensare all’uso improprio di tribunali e media per intimidire – talora riuscendo a tacitarle – le voci di dissenso», sottolinea Carillo, che insegna Storia del pensiero politico all'Università Suor Orsola Benincasa di Napoli: «La superbia oggi la fa da padrona. Ma c’è la speranza che alla superbia – la greca hybris – faccia seguito, quanto prima, il castigo – Ate – che punisce i tracotanti».
L’ex magistrato, scrittore e sceneggiatore Giancarlo De Cataldo ha variamente esplorato il potere e i suoi abusi: dal bestseller ispirato alle vicende della banda della Magliana, “Romanzo criminale” (uscito nel 2002 per Einaudi), ai tanti suoi libri nei quali poteri occulti fanno da sfondo a delitti e stragi. Ha inventato la figura del pm Manrico Spinori, che nella Capitale indaga tra omicidi inquietanti: al Teatro Costanzi ne “Il bacio del Calabrone”. In un pluristellato locale capitolino nel nuovo romanzo (edito sempre da Einaudi Stile libero), intitolato “Un cadavere in cucina”.
La letteratura ha una funzione fondamentale in una società democratica. Ma mentre si teme per la democrazia stessa, esposta a derive illiberali e con oligarchie di potere che si fanno strada ovunque, è possibile considerarla un contropotere?
«Sì, anzi ora più che mai. Ovviamente non mi riferisco a un contropotere politico in senso letterale - che vale per il segmento della cosiddetta letteratura di denuncia, anche storicamente circoscritto - ma alla parola, alla tessitura di una trama narrativa che è un'eccellente forma di antagonismo al coacervo di fake news, superficialità, cialtroneria, ignoranza, analfabetismo oggi imperanti: la vera egemonia culturale del tempo moderno».
Crede cioè in una letteratura come resistenza a tutto questo, e come alleata di cittadini più critici e consapevoli?
«Sì, la letteratura ha un grande valore oggi più che mai e va assunta come forma alta di testimonianza».
Intende come forma di memoria?
«Considerandola appunto non per i suoi effetti immediati ma per la sua capacità di lanciare segnali: non è che i manifesti di scrittori o i libri che gridano forte il loro essere contro facciano smettere davvero immediatamente il massacro di Gaza o la guerra in Ucraina. Ma lasciano una traccia. Quando avremo la capacità di riflettere, testimonieranno che le cose non sono state raccontate solo in un modo come certa propaganda ha fatto, ma che qualcuno è andato più a fondo: e sono stati gli scrittori».
Non è poco? Non crede che la gente di cultura possa arrivare ad aggregare consenso per cambiare le cose? Mi riferisco proprio a Gaza.
«Tanti anni fa Piergiorgio Bellocchio scrisse un libro che si intitolava “Taci, il nemico non ti ascolta”. Era un testo abbastanza profetico perché ribaltava il ragionamento sul silenzio degli intellettuali, facendo capire che nel mondo contemporaneo, per quanto tu possa alzare la voce, il peso della tua parola non è più quello che è stato in passato. In Italia fino alla morte di Pasolini: da lì in avanti il peso specifico delle prese di posizione e degli interventi degli intellettuali e della gente di spettacolo è andato via via calando. Ma anche all’estero: negli Stati Uniti, per esempio, il fatto che grandi star progressiste, del cinema o della musica, si siano schierate con Kamala Harris non ha spostato un voto. Non è quello degli effetti immediati il terreno della letteratura. È il terreno della resistenza culturale: lo paragonerei a quello dei monaci che, mentre avanzavano i barbari si ritiravano nelle abbazie e coltivavano l’arte del manoscritto».
Per custodirla, per tramandarla?
«O perché magari un giorno arriva un barbaro più intelligente degli altri che si avvicina a quel mondo e a quelle espressioni d’arte costruite con lentezza e con pazienza, e piano piano la Storia ricomincia».
Sta dicendo che la bellezza che resiste può contagiare il mondo?
«Sì. Può salvare la speculazione, la riflessione, il bello, così come la chiesa in quegli anni conservò la conoscenza. Perché prima o poi qualcuno, fatalmente, la riscopre».
La letteratura è dunque una forma di resistenza culturale. Anche dal punto di vista del linguaggio: oggi sempre più impoverito e standardizzato?
«Certo. Senza necessariamente essere puristi tradizionalisti, e dunque accettando le contaminazioni perché la lingua è dinamica, bisogna respingere l'impoverimento del lessico, che è il vero pericolo».
Ciclicamente ce lo domandiamo, pur consapevoli che denunciare, prendere le distanze, criticare produca deboli conseguenze: ha ancora senso usare la parola “intellettuale”?
«Se accetti di essere insultato in quanto testimone di una parolaccia, sì».
È un termine screditato?
«Sì. Viviamo tempi in cui diffondere pienamente l'ignoranza significa contrastare la resistenza che viene dalla conoscenza. Abbandonando la democrazia e guardando a forme di controllo più immediatamente redditizie, si sta rendendo accettabile questa trasformazione – che un tempo si farebbe fatta con carri armati – con la persuasione, con il controllo dei media, delle istituzioni, della produzione culturale. Il modo più sofisticato è rendere luminosa l'ignoranza. E quindi chi sa, o chi insegna che è necessario sapere, finisce sul banco degli imputati».
Il mondo culturale è senza colpe? Non si potevano costruire alternative?
«Se parla di alternative in senso politico-sociale non spettava sicuramente al mondo intellettuale costruirle. La colpa principale degli intellettuali è quella di apparire algidi, distaccati, compiaciuti delle proprie posizioni di potere, più o meno rilevanti».
Senso critico, satira: dove troviamo delle barriere?
«Il senso critico è una forma molto raffinata di soft power e andrebbe sempre incoraggiato. Se la satira è fescennino e atellana che vanno molto di moda in questo periodo è soltanto una forma di lusinga del potere, che non fa male a nessuno e non dà fastidio. La satira ficcante, mordente è quella che colpisce la politica, ma la forma più alta è stata quella della grande commedia italiana».
È finita lì? Non ne vede in circolazione?
«Pochissime forme. Cosa ha davvero provocato un dibattito importante negli ultimi tempi? Il film di Paola Cortellesi “C’è ancora domani”. Perché nasce da un’equazione semplicissima: la forza che in democrazia sposta le cose si chiama voto. Punto. È molto doloroso il fatto che sia necessario un film, importante e di successo, a ricordarcelo».
La letteratura è anche memoria: evita il ripetersi degli errori, sostengono i teorici del suo valore pedagogico. È d’accordo?
«Non sono mai stato un sostenitore del valore pedagogico e istruttivo della letteratura. Sono un fan della forza della letteratura in sé, in quanto tale, come della poesia o dell'arte meravigliosa. Gramsci, commentando un concerto in cui Toscanini dirigeva Beethoven, e che il pubblico contestava perché durante la Prima guerra mondiale si combatteva contro gli imperi centrali, dunque non era ritenuto opportuno, scrisse: se l’umanità ascoltasse più Beethoven, sarebbe un’umanità migliore. È un quello che sostengo anch’io quando vado a presentare uno scrittore israeliano: credo fortemente che serva mantenere un filo di comunicazione con tutti. Se leggessimo di più buoni libri saremmo migliori, a prescindere dal contenuto specifico di quel libro. Dostoevskij non era un maestro del pensiero progressista o marxista, ma quanto più poveri saremmo se ci privassimo di lui, un russo?».
L’esperienza della lettura conta in sé, a prescindere da quello che leggiamo?
«Sì, anche se io mi riferisco all'esperienza della lettura di quei grandi libri, dei grandi film, di quella musica che la nostra Storia considera capisaldi. Possiamo essere critici, scettici, preferirne uno a un altro, ma non possiamo cancellare ciò i grandi autori che ci hanno lasciato e che ci rende migliori».
Ha potere il mondo letterario italiano?
«Di far vincere il Premio Strega? Di far vendere certi libri? Carmelo Bene una volta disse: “Tutto il potere, comunismo compreso è dannoso”. La letteratura ha la grande forza di mettere in discussione: questo è ciò che la rende grande. Questo soltanto è il suo potere».
Quando era magistrato, si sentiva un uomo di potere?
«Ho sempre cercato di evitarlo. Sono stato nella mia vita presidente di collegi - per anzianità, non per aver vinto un concorso, anzi quando dovevo partecipare all’ultimo minuto mi sfilavo. Quello giudiziario è a tutti gli effetti potere. Ma siccome il potere dà alla testa consiglio di tenersene molto lontano».
Non le interessava?
«Credo che esista un momento, un passaggio, una strettoia in cui troppo potere significa nessuna libertà. E allora bisogna rinunciare a qualcosa. In nome di quel potere, non ero disposto a rinunciarvi. Non vale per tutti. Ma per me è sempre stato così».
