Vietnam, Afghanistan, Iraq. “La mia amica Zoe” racconta i drammi dei reduci di guerra. Con le regole del cinema americano

Dalla parte dei veterani

Secondo una notizia che arriva sui titoli di coda, dall’11 settembre a oggi negli Usa 127mila reduci di guerra si sono tolti la vita. Dieci volte di più delle vittime registrate nel frattempo dalle forze armate Usa sui vari fronti. La cifra, scioccante, precede l’apparizione di un QR Code che consente allo spettatore interessato di sostenere le associazioni dei veterani. Il tutto con l’avallo, sempre dopo la fine, dei tre massimi nomi in cartellone: la protagonista Merit (Sonequa Martin-Green), reduce dall’Afghanistan afflitta da PTSD o Post Traumatic Stress Disorder; suo nonno (Ed Harris), che invece prestò servizio in Vietnam e oggi combatte i primi sintomi di un nemico chiamato Alzheimer; e il venerabile Morgan Freeman, responsabile del gruppo di ex soldati che dovrebbero elaborare pubblicamente i loro dolori.

 

Perché per la protagonista non sia facile farlo, lo scoprirete al cinema, ma basta il titolo per capirlo. Diretto e concepito secondo le regole più oliate del (buon) cinema Usa, “La mia amica Zoe” colpisce soprattutto per ciò che tace – o quasi. E per la sua storia produttiva. A partire dal regista e sceneggiatore Kyle Hausmann-Stokes, un ex paracadutista arruolatosi nell’agosto 2001, un mese prima dell’11 settembre, ma “congedato” tre anni più tardi da un superiore. Che avendo scoperto, grazie ai video girati in Iraq, il talento di quel soldato con la telecamera sempre in pugno, gli aveva ordinato di servire la patria sul set anziché al fronte.

 

Si sa che la storia del cinema americano è strettamente intrecciata a quella delle forze armate (basti citare i docu girati durante la Seconda guerra mondiale da Frank Capra, John Ford, John Huston e altri). Dopo il Vietnam le cose però cambiano. E se oggi il Pentagono sostiene tanto cinema bellico “puramente” spettacolare (si fa per dire: la purezza è poca), non mancano film più sfumati come questo esordio. Anche se le regole del gioco sono tutte americane. Quanto al quadro storico potremmo essere nel deserto dei Tartari: il “nemico” non si vede nemmeno da lontano, delle ragioni di quella e di altre missioni non si parla, salvo che per una battuta sul colonialismo moderno o per l’amarezza del nonno («Altro che PTSD: a noi, tornati dal Vietnam ci sputavano addosso, ci dicevano assassini di bambini... i soldati hanno sempre fatto ciò che nessuno vuol fare»). Certo, Zoe sa bene da quali strati sociali vengano i militari, eppure la loro sembra una condizione quasi metafisica. Vissuta con amara, ironica consapevolezza se il loro film preferito è “M.A.S.H.” di Robert Altman.

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