Nel libro "E non scappare mai" Annalisa Cuzzocrea ha ricostruito lotte, sogni, scelte, gli incontri con tanti protagonisti del ’900 della grande giornalista. Un appassionato intreccio di vita privata e impegno

Miriam Mafai dallo sguardo libero

Quando tutto si intreccia con la storia. Così Annalisa Cuzzocrea racconta la vita di Miriam Mafai in “E non scappare mai” (Rizzoli): una donna sfuggente, spesso inafferrabile, che però alla storia non si sottrae affatto. Persino i biglietti d’amore e i litigi, magari su carta intestata della Camera, passano da Montecitorio. La dedizione al presente, da politica o da giornalista, avrà pure un prezzo, ma ha un segreto: sembra dedizione al presente, invece è dedizione al futuro. È un fuoco che porta a guardare sempre avanti, spesso dove gli altri non vedono ancora.

 

E il prezzo non è quello banale che si immagina, quello che devono pagare le donne che mettono «il lavoro e l’impegno davanti a tutto e a tutti», no, è più universale, più alto, e lo pagano anche gli uomini. Tutti quelli che sentono il bisogno di confrontarsi seriamente con la propria epoca, senza sconti.

 

Costano le intuizioni e le anticipazioni, è il prezzo di essere riformista prima del riformismo e femminista, peraltro non dogmatica, prima del femminismo. E a Miriam diventa stretto un partito maschilista come il PCI quanto il matrimonio con il padre dei suoi figli, Umberto Scalia. Uno sguardo libero ha bisogno di più spazio.

 

Pesano come debiti gli errori o gli abbagli, le cose capite troppo tardi, concrete quanto il corpo di Aldo Moro. E proprio Miriam, schierata per la linea della fermezza durante il sequestro, arriva per prima in via Caetani e si trova davanti un «fagotto informe, avvolto in una coperta di lana color cammello, con un bordo di raso, una coperta come ce ne sono in tutte le nostre case» e capisce. «A nessun leader politico in tempo di pace dovrebbe essere richiesto di essere un eroe», dirà trent’anni dopo. «Abbiamo sbagliato, e lo abbiamo fatto tutti, mandando a morire un innocente».

 

Si pagano le nostalgie, rigorosamente vietate. Ma solo così, durante il funerale di Berlinguer, lei riesce già a pensare che si può fare una cosa sola: dimenticarlo. Si paga il tempo che passa, indifferente alla presenza o all’assenza di chiunque, il compleanno di un figlio mai festeggiato per seguire De Gaulle in Algeria, le notti in redazione per scommettere su un giornale come in un gioco d’azzardo. Ma solo così si fonda La Repubblica, forse.

 

Questa è la vita, con i suoi bilanci, e Miriam non si sottrae alla sua complessità. Sta qui la bellezza del libro, che davvero sembra un romanzo, soprattutto quando Annalisa Cuzzocrea coglie quel battito d’ali, magari immaginario, che può fare rabbrividire anche una donna forte, pragmatica e spiccia, come Miriam Mafai. La vediamo aggrapparsi a un diario, spaesata dalla morte di Gian Carlo Pajetta, il compagno della vita, o rimuovere nel silenzio il suicidio del primo marito, Ugo Nacson, conservando però la pistola in un cassetto. O piangere dopo una lite con la figlia Sara, lei che detestava manifestare le emozioni, disarmata dalla sua stessa incapacità di dimostrare il bene che le vuole. Forse consapevole di avere una personalità un po’ troppo schiacciante, come Ingrid Bergman in “Sinfonia d’autunno”. Ma anche ridere con Sara, fumando una sigaretta e bevendo un whiskey, ogni sera, loro due per un’oretta, affettuosa abitudine. Oppure riempire di nascosto di banconote il portafoglio di Simona, sorella adorata, quando è in difficoltà. I suoi gesti d’amore sono sempre un po’ furtivi, quasi fatti di nascosto, come quando infila nella valigia del severo Pajetta (che dalle lettere esce tutt’altro che severo, semmai romantico, capace di una tenerezza inaudita) un costume da bagno nuovo: per fare una sorpresa, per mettere allegria. C’è un pudore verso i sentimenti che commuove. Solo la sua risata è sfrenata.

 

Un pudore simile a quello di Annalisa Cuzzocrea quando nella storia di Miriam Mafai – a piccoli tratti, ogni tanto – inserisce la sua, di donna e giornalista. Senza eccedere. Sembra piuttosto un gesto di solidarietà: se parlo del tuo aborto allora parlo anche del mio. Se violo i tuoi silenzi, allora devo violare anche i miei. 

 

Del resto, Miriam è una donna degli anni Venti, la sua giovinezza è stata la guerra e il dopoguerra, che insegnano a battersi e a scansare il dolore per guardare avanti, solo avanti. E non viene da una famiglia qualunque: è figlia di due artisti, Mario Mafai e Antonietta Raphaël, due sregolati da arginare con un po’ di ordine, andava bene pure quello rigido del partito, almeno all’inizio. Lei stessa era stata mollata ai nonni quando loro inseguivano qualcosa di più grande, a Parigi, facendo la fame. Però da loro ha imparato tutto: la libertà e la visione politica. E proprio suo padre, che le ha insegnato il comunismo, è stato il primo a capirne i limiti e a allontanarsene. Ma ogni storia ha i suoi tempi. Anche quella di Miriam.

 

Annalisa Cuzzocrea segue la sua corsa, mai folle – la sua corsa sempre ragionevole, semmai – fra tanti mondi diversi, a volte inconciliabili quanto la luce delle opere di Mario Mafai e la claustrofobia dell’Unione Sovietica. Una Miriam vorticosa, che cambia idee e mestieri, mariti e città – «adattava le sue idee al tempo, non le teneva mai immobili» – eppure così coerente nell’occupare un preciso posto nel mondo, quello e solo quello, ostinatamente, nell’occuparsi di politica «da quella postazione privilegiata, se si vuole, un po’ particolare, che è il giornalismo».

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