Cultura
18 luglio, 2025Autobiografia ed esilio, tradizioni e violenza. “Shayda” raccontagli iraniani d’Australia proprio come vuole vederli l’Occidente
C’è un nuovo sottogenere che cresce nei festival, più che sugli schermi, occidentali. Il cinema della diaspora asiatica e mediorientale. Di impianto spesso melodrammatico, a volte autobiografici, questi film hanno molti meriti ma corrono anche dei rischi. Il primo merito è dare corpo e voce a minoranze di espatriati che contestano, spesso a rischio della vita, i regimi se non i Paesi di provenienza. Il rischio più diffuso è invece quello di aderire, magari inconsapevolmente, a una rappresentazione stereotipata delle culture originarie. Contribuendo alla banalizzazione imperante.
È il caso di questo “Shayda”, esordio premiato al Sundance dell’irano-australiana Noora Niasari, prodotto dalla star “aussie” Cate Blanchett e dominato da una delle dive della diaspora persiana, l’eccellente Zar Amir Ebrahimi, esule dal 2008 per colpa di un sextape, già vista in titoli-chiave come “Holy Spider” di Ali Abbasi, nonché co-regista con l’israeliano Guy Nattiv di “Tatami”, un film che è di per sé un inno alla tolleranza e alla cooperazione. Ospite con la figlioletta Mona di una casa famiglia a Melbourne, Shayda chiede il divorzio da un marito violento approfittando di un periodo di studi che ha portato entrambi agli antipodi. Essendo nel 1995, i contatti con la patria, ovvero con la madre di Shayda e nonna di Mona, molto preoccupata da “cosa dirà la gente”, avvengono solo al telefono, con grosse cornette in primo piano sicuramente più fotogeniche degli attuali smartphone. Ma proprio qui sta il problema. Posto che Shayda, giustamente, oltre a non volerne più sapere di un uomo che le ha usato violenza a pochi passi dalla figlia, vuole le libertà di qualsiasi occidentale, come fare a non demonizzare un’intera cultura? Possibile che l’unica cosa degna del suo mondo siano i piatti tradizionali e i rituali, lo spirito comunitario del Nowruz, il Capodanno persiano?
Divisa tra un nuovo corteggiatore irano-canadese molto “cool” e un marito occhialuto-zazzeruto in puro stile pasdaran, Shayda deve mediare tra le proprie esigenze e quelle della figlia, salvando per quanto possibile il suo attaccamento a quel padre subdolo e affettuoso. Ma l’ambivalenza, la zona grigia in cui germinano i sentimenti di Mona (la futura regista era proprio la bambina) si rovesciano presto in un racconto fin troppo esemplare di violenza e persecuzione. Scegliendo il punto di vista della madre la regista ha forse reso tutto più fluido e riconoscibile, secondo i nostri codici. Ma se fosse rimasta fedele al proprio, con la sua complessità e le sue sfide, il film ne avrebbe guadagnato in verità e in emozione.
SHAYDA
di Noora Niasari,
Australia, 112’
AZIONE! E STOP
Noi credevamo, e crediamo ancora, che la versione integrale del film di Martone sul Risorgimento, “Noi credevamo” appunto, fosse ancora più appassionante di quella poi uscita al cinema. Sono 202 minuti contro i 170 visti finora solo alla Mostra di Venezia, Finalmente in onda su “Fuori orario”, Raitre, nella notte tra 17 e 18 luglio.
Un italiano c’è, fra i 100 migliori film girati dopo il 2000 secondo il “New York Times”: “Chiamami col tuo nome” di Luca Guadagnino, che è anche l’unico italiano presente tra gli 80 votanti noti (ma non ha votato se stesso). Per il resto, fra coraggio e banalità, la lista è un invito alla discussione, anzi alla lite. Come ai bei tempi, evviva.
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