Cultura
21 luglio, 2025Nel clima rigido del secondo Cinquecento, Filippo Neri è stato decisamente una figura sopra le righe. Ma quanto c’è di vero?
Probabilmente, quando Filippo Neri lesse per la prima volta «Motti e facezie del Piovano Arlotto» non poteva immaginare quanto quel testo avrebbe influenzato la sua esistenza. Pare infatti che quella raccolta di burle, scritte da un prete fiorentino vissuto nel 1400, sia stato uno dei suoi libri “di formazione”. Ma come arriva Filippo Neri ad essere uno dei protagonisti della Controriforma?
Una parabola comune: il ragazzo di buona famiglia che trova la fede
Il nome di Filippo Neri è legato indissolubilmente a Roma ma è Firenze la città in cui nasce il 21 luglio del 1515 e dove trascorre la giovinezza, almeno fino ai diciotto anni. La sua storia familiare è la classica parabola del giovanotto di buona famiglia che scopre la fede: figlio di un notaio abbastanza facoltoso, Filippo Neri viene quasi subito avviato alla carriera di commerciante. Le cose vanno diversamente, l’incontro con la fede arriva per gradi ma è irreversibile. Si trasferisce a Roma nel 1534, formalmente come pellegrino, ma in realtà con l’intenzione di restarci. Trova lavoro come precettore presso una famiglia influente e inizia a farsi largo nell’ambiente religioso cittadino, senza mai diventare un uomo “di Chiesa” nel senso tradizionale del termine. Almeno nei primi anni.
Diventa sacerdote un po’ tardi per l’epoca (aveva quasi quarant’anni), nel 1551, e da lì comincia la parte più nota della sua vita: le confessioni a tutte le ore, i colloqui spirituali a metà tra preghiera e terapia, e poi la nascita dell’Oratorio. Il successo personale arriva presto, così come una certa fama. Vive ancora molti anni, attraversando in pieno la Roma della Controriforma, ma senza mai aderire davvero alla sua rigidità. Muore nel 1595, a ottant’anni, senza aver mai lasciato la città che aveva scelto.
Il santo delle barzellette: leggenda o realtà?
Fino a noi sono arrivati decine, forse centinaia di aneddoti su scherzi, burle e trovate surreali di Filippo Neri. Che siano tutti veri è difficile da stabilire, ma di una cosa possiamo essere abbastanza sicuri: doveva essere un personaggio eccentrico. Troppi testimoni, troppa insistenza su certi episodi per pensare che si tratti solo di leggende devozionali. La cosa interessante, però, è che tutta questa stranezza non era fine a sé stessa. Filippo Neri usava l’umorismo come leva per smontare i meccanismi del potere religioso, ridimensionare le vanità clericali e avvicinare i giovani sbandati alla Chiesa.
Si racconta che per umiliare il proprio orgoglio si sia rasato solo metà della barba, e abbia continuato a girare per la città così, senza spiegazioni. Altre volte si sarebbe fatto vedere in giro con un cane al guinzaglio e una scimmietta sulle spalle: una scena che oggi definiremmo performativa. Uno dei suoi “trucchi” preferiti era imporre penitenze assurde: come far portare una gallina viva sotto il mantello da tirare fuori ogni tanto. Si potrebbe pensare a un umorismo da quattro soldi, ma in realtà c’era dietro una strategia di disarmo: abbattere l’immagine rigida del sacerdote, sorprendere l’interlocutore, e da lì aprire un varco per un vero dialogo.
Tutta questa teatralità, volutamente eccessiva, gli ha fatto guadagnare il soprannome di “Giullare di Dio”. E forse è proprio così che va letto: non come un insulto, ma come un titolo coerente per un uomo non ha mai voluto essere un’icona da venerare.
I “ragazzi di vita” di San Filippo Neri: come nasce l’Oratorio
Le situazioni di degrado umano e sociale descritte da Pasolini in “Ragazzi di vita” dovevano essere molto simili a quelle della Roma di metà Cinquecento. Il sacco di Roma del 1527 aveva devastato profondamente la città: miseria, furti, bande di ragazzini lasciati a sé stessi affollavano le strade. In questo clima di tensione sociale, Filippo Neri dà vita a quello che prenderà il nome di “Oratorio”. Una sorta di centro di aggregazione ante litteram, dove la pratica religiosa si mescolava al recupero sociale, ma anche alla musica, alla parola, al canto. Non si trattava di un semplice ritrovo per ragazzi sbandati: l’Oratorio accoglieva anche nobili, intellettuali, uomini e donne di diversa estrazione, tutti coinvolti in un’esperienza di spiritualità condivisa, ma con uno stile totalmente nuovo.
Durante gli incontri, infatti, non era raro che Filippo interrompesse la lettura del Vangelo con intermezzi cantati, spesso sonetti scritti da lui stesso, per rendere più vivace e accessibile il messaggio. Così, quasi senza volerlo, l’Oratorio divenne anche un laboratorio musicale: le antiche laudi popolari si trasformarono in composizioni a più voci, accompagnate da strumenti, creando una nuova forma di partecipazione liturgica. Secondo alcuni studiosi, come Francesco Danieli, da questa sensibilità estetica prese forma un nuovo modo di catechizzare: Filippo Neri ha influenzato in modo diretto e indiretto la pedagogia cattolica post-tridentina lasciando una traccia indelebile nella storia della pedagogia. Un modello in cui l’arte non era fine a sé stessa ma strumento concreto di evangelizzazione e crescita personale.
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