Cultura
24 luglio, 2025Nei convegni, nei talk show, nelle aule universitarie le voci femminili sono marginali. Discriminate, spesso si fanno da parte. Il saggio di Flavia Trupia analizza la situazione e contiene un appello
Nei tavoli dei relatori (quelli che contano) siamo rare più del panda». La frase, a metà tra l’ironia e la denuncia, è di Flavia Trupia, autrice di “Prendiamo la parola! La retorica dalla parte delle donne” (Edizioni Piemme), un libro che suscita una domanda scomoda, ma urgente: perché nel dibattito pubblico le donne continuano a essere così poche?
Basta guardarsi attorno, partecipare a un convegno, seguire un talk show: le voci femminili sono poche, spesso relegate a ruoli marginali. Non è solo una questione di inviti mancati, ma anche di rinunce volontarie. Troppe donne, racconta Trupia, si fanno da parte ancor prima di salire sul palco. Per paura del giudizio, per insicurezza, perché abituate a stare dietro le quinte. «Accade nei licei, nei corsi universitari, nei contesti aziendali. Le donne fanno un passo indietro e si occupano dei dati, della preparazione, ma lasciano parlare gli uomini», spiega l’esperta di retorica e comunicazione, autrice anche di “Viva la retorica sempre! Il superpotere della parola”, sempre per Piemme.
E i numeri, purtroppo, lo confermano. Le donne fanno meno domande in pubblico, subiscono più insulti e minacce online, si candidano meno e parlano solo quando si sentono completamente preparate – al contrario di molti uomini, spesso più inclini a millantare competenze che non hanno. Non solo: se una donna sbaglia, se si arrabbia o piange in pubblico, viene giudicata con una severità che agli uomini non tocca. È il doppio standard che ancora oggi regola la percezione pubblica delle emozioni.
Basti pensare al pianto: quando a commuoversi sono stati Totti, Obama o Churchill, le lacrime sono state lette come segno di umanità e coraggio. Quando invece, nel 2023, la premier neozelandese Jacinda Ardern si dimette con voce rotta dall’emozione, la Bbc titola: «Le donne possono davvero avere tutto?». Titolo poi cancellato: dietrofront tardivo, che lascia il segno di un pensiero ancora radicato.
Eppure, ci sono donne che hanno usato la parola con una forza dirompente. “Prendiamo la parola!” ne recupera i discorsi più significativi: dall’invettiva della premier australiana Julia Gillard contro la misoginia del leader dell’opposizione, alla denuncia di Mary McAleese, ex presidente irlandese, che ha definito la Chiesa cattolica «il principale portatore globale del virus tossico della misoginia». E ancora: Ursula von der Leyen, lasciata senza sedia da Erdogan in un incontro ufficiale, ha trasformato l’umiliazione in un richiamo potente alla parità.
Parole che dovrebbero essere studiate, diffuse, ascoltate. Perché non si tratta solo di retorica, ma di democrazia. Una società che non ascolta le donne, o che le ascolta meno, è una società zoppa. Ed è per questo che Trupia lancia il suo appello: serve più spazio per le voci femminili, più coraggio nel prenderselo, più educazione a riconoscerne il valore.
«Prendere la parola non è solo parlare: è esistere nella sfera pubblica», chiosa l’autrice. È tempo che le donne si riprendano quella voce che troppo a lungo è stata silenziata, deformata, ignorata. E che tutti – uomini inclusi – imparino ad ascoltarla davvero.

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