Nella politica di tutti i livelli, nelle aziende, nelle università e nelle redazioni gli uomini continuano a occupare in modo sistematico la maggior parte dei ruoli di potere. Su 128.093 posizioni di comando analizzate nel report “Sesso è potere” dalle associazioni di giornalisti e ricercatori OnData e Info.nodes, appena il 35 per cento è occupato da donne. In questa radiografia, le sindache sono il 15 per cento, le dirigenti il 4, le direttrici di giornali il 6. L’Istat rileva una disparità di genere ancora più marcata: nel 2024 solo il 21,3 per cento delle donne ha avuto posto negli organi decisionali, dove le dirigenti percepiscono una retribuzione oraria inferiore del 30,8 per cento rispetto ai loro colleghi.
In politica come nelle aziende, nonostante alcune norme abbiano introdotto delle quote e degli obblighi per favorire l’equilibrio di genere, i ruoli di potere restano insomma una prerogativa maschile. Sono uomini il 65 per cento degli eletti a livello comunale e regionale, con un picco tra i sindaci (uomini nell’85 per cento dei casi) e tra i presidenti di Regione, tutti uomini eccetto Stefania Proietti in Umbria e Alessandra Todde in Sardegna. Sono amministrati da uomini anche 18 dei 24 ministeri dell’attuale governo, così come sono uomini tutti e cinque i sottosegretari della Presidenza del Consiglio. Restano poi immutati, rispetto all’indagine del 2023, i dati relativi ai seggi occupati in Parlamento, dove i deputati e i senatori sono maschi rispettivamente nel 66 per cento e nel 63 per cento dei casi. «La politica è l’unico dei settori esaminati che presenta dei margini di miglioramento, perché le quote di genere garantiscono la partecipazione delle donne alle elezioni e la loro presenza nei ruoli di vertice. Al contrario, dove queste norme non ci sono, un miglioramento non si verifica: significa che dal punto di vista sociale e culturale in Italia la capacità di gestire il potere è ancora vista come una caratteristica per soli uomini –dice Davide Del Monte, presidente di Info.nodes – Evidentemente una donna non è ancora ritenuta adatta a guidare un’azienda».
Per analizzare la distribuzione del potere economico, nel report vengono esaminate le 34 società controllate e partecipate dal Ministero dell’Economia e le 50 aziende a maggiore capitalizzazione quotate alla borsa di Milano. In entrambi i casi il divario di genere è netto. In particolare, le società partecipate dal Ministero hanno l’82,4 per cento dei ruoli dirigenziali ricoperti da uomini, percentuale che sale al 96 per cento nelle prime 50 aziende quotate a Piazza Affari, guidate da 41 presidenti uomini e soltanto da nove presidenti donne. Il predominio maschile è pressoché totale nei settori tecnologici e bancari: Tatiana Rizzante, amministratrice delegata di Reply, ed Elena Patrizia Goitini, ceo della Banca Nazionale del Lavoro, sono le uniche due donne a occupare posizioni di vertice.
I dati raccolti smentiscono ancora una volta chi annuncia la fine del patriarcato e delle disparità strutturali che impediscono alle donne di raggiungere posizioni di potere. «Se abbiamo una donna premier tutto è possibile, se abbiamo una scienziata italiana nello spazio il soffitto di cristallo è abbattuto, e così via. In realtà, anche solo il dato sulla partecipazione delle donne al mercato del lavoro (il 52,5 per cento contro la media Ue del 65,7 per cento nel 2023) potrebbe darci risposte utili, ma possiamo appunto andare oltre, e capire perché ci fermiamo a occupare posizioni che da qualche decennio sono state definite di middle management» scrive nel report una delle autrici, la giornalista Donata Columbro. Per middle management si intendono le posizioni dirigenziali intermedie che si collocano al di sotto dei ruoli apicali delle aziende. Per Columbro, il fatto che le donne occupino questi incarichi non rappresenta un effettivo cambiamento nella gestione del potere, che continua a rimanere soprattutto in mano agli uomini: «Abbiamo voluto il potere e ci hanno dato responsabilità senza davvero farci sedere ai tavoli decisionali».
«Eppure l’economia va male, allora perché non cercare nuove strade e ribaltare i canoni di chi l’amministra?» si interroga Del Monte. Lo stesso dubbio riguarda il settore dell’informazione, contraddistinto da una crisi prolungata e costante. «Anche in questo caso non c’è stato finora un tentativo di modificare i ruoli di vertice nelle direzioni». Di fatto tra i direttori dei telegiornali nazionali non ci sono donne, mentre se si considerano le 50 principali testate nazionali, le direttrici sono soltanto due.
Secondo l’Istituto Nazionale di Previdenza dei Giornalisti Italiani, inoltre, tra i professionisti under 40 le donne sono circa il 54 per cento, ma l’anno scorso solo il 24 per cento dei ruoli editoriali al vertice è stato ricoperto da giornaliste. Il divario si riduce in parte guardando alle principali agenzie di stampa, dirette nel 43 per cento dei casi da donne. Tuttavia la parità di genere resta lontana anche nella retribuzione, visto che in media le giornaliste vengono pagate meno dei loro colleghi: sia che abbiano un contratto sia che abbiano una partita Iva. L’analisi del report si ferma qui, ma l’Istat individua molti altri settori in cui la presenza di una “segregazione verticale” impedisce alle donne di assumere ruoli di potere, nonostante la crescente competenza professionale. Nella giustizia, per esempio, le magistrate con ruoli direttivi non superano il 28 per cento, mentre nella sanità, dove il personale è per oltre la metà composto da donne, coloro che dirigono i reparti si riducono al 21 per cento.