Cultura
25 luglio, 2025Articoli correlati
I processi per abusi sessuali. Il successo, il potere, il lato oscuro dei suoi personaggi. L’amore per l’Italia. Il protagonista di House of cards: “Ai giovani consiglio: seguite la verità, non la fama”
Dopo un lungo lavoro su me stesso sta per iniziare la seconda parte della mia carriera: il meglio deve ancora arrivare». È un Kevin Spacey ottimista quello che incontriamo all’Italian Global Series Festival di Riccione, dove ritira il premio Maximo Excellence Award. L’attore due volte premio Oscar, per “I soliti sospetti” e “American Beauty”, vincitore del Golden Globe per la serie “House of Cards”, torna in pubblico commentando così le sue vicissitudini giudiziarie, ovvero i processi affrontati negli Stati Uniti e in Gran Bretagna per molestie e abusi sessuali: «Esperienze che mi hanno permesso di fermarmi, rivalutare e ascoltare. Sono grato a coloro che mi sono stati accanto e sono stati disposti ad aspettare il risultato processuale prima di prendere decisioni nei miei confronti, di loro mi fido e mi fiderò sempre. Quanti invece hanno stabilito subito che fossi colpevole hanno il mio perdono, ma non li cercherò».
Mr. Spacey, come pensa di ricostruire la sua carriera adesso?
«Non la vedo in termini di “ricostruire”, si è aperto un nuovo capitolo della mia vita. Sono stati sette anni lunghi, sfidanti e formativi, in cui ho vissuto momenti difficili, ma anche esperienze di forte amicizia e vicinanza vera con i miei amici e la mia famiglia. Anni che mi hanno cambiato, sentimenti come rabbia e desiderio di vendetta non mi riguardano, ricerco piuttosto la comprensione, il perdono, l’amore. Il giudizio non mi interessa. I media hanno i loro obiettivi, qualunque essi siano, la verità è che io mi sento accolto dalle persone, come accade qui in Italia. Non vedo l’ora di cogliere al volo le opportunità che mi si presenteranno (qualche giorno dopo questo colloquio è uscita la notizia che sarà nella nuova sitcom italiana “Minimarket” su Rai Play, ndr)».
Martin Scorsese ha detto che in questo delicato momento storico il cinema ha il compito di dire la verità. Concorda?
«Oggi il cinema è sfidato da tutto ciò che accade, ma penso che la sua forza sia proprio andare incontro a questa sfida: il cinema sopravviverà fin quando le persone avranno voglia di raccontare e ascoltare storie, non ho dubbi su questo».
Non teme l’intelligenza artificiale?
«Sotto certi aspetti mi preoccupa, più per quello che ancora non sappiamo che per quello che sappiamo. Temo di più per le troupe, i tecnici e le maestranze, persone incredibili che lavorano sui film insieme a noi attori che sicuramente rischiamo meno. Perché le nostre performance si basano sull’imprevedibilità del momento: una nostra battuta è diversa ogni volta, lo spazio di creatività che si crea sul set tra artisti nessuno potrà mai replicarlo».
Ha mai avuto paura di interpretare uno dei suoi personaggi?
«La paura è una bussola importante. Se ho paura, allora devo andarlo a esplorare: la paura è un valore con cui fare i conti, per un attore. Quando leggo un copione e dico: “Come diavolo farò?” già mi interessa».
Nella sua carriera ha avuto modo di esplorare il lato oscuro dell’umanità in più film, partendo da “Seven”.
«La prima cosa che cerco come artista sono le contraddizioni, i motivi per cui un personaggio è in conflitto con se stesso. Perché nessuno al mondo è una sola cosa. Ho esplorato il lato oscuro della nostra società attraverso certi personaggi, ma non li chiamerei mai “cattivi”, non li giudico né li ho mai giudicati. Mi sono messo nei loro panni, ritengono di essere nel giusto anche loro in ciò che fanno, il mio ruolo non era valutare se il loro operato fosse o no eticamente corretto, ma interpretarli nel modo più onesto e credibile possibile. Per questo il più grande premio che ho ricevuto non sono gli Oscar, ma i commenti delle persone che mi parlavano dei miei personaggi come fossero persone vere. Molti, ad esempio, si sono rivisti nel mio Lester di “American Beauty”, un film sulla lenta ribellione di un uomo che lottava contro la vita quotidiana. Il fatto che si identificassero con quelle emozioni allora, e lo facciano ancora oggi, significa che ho fatto bene il mio lavoro».
Tra i suoi personaggi più amati c’è il presidente Frank Underwood di “House of Cards”. Cosa direbbe oggi a Trump?
«Gli direbbe che il potere è solo una questione di percezione, dura tanto quanto la gente ti consente di farlo durare».
Si potrebbe dire lo stesso della fama.
«È vero, infatti ai giovani consiglio di non inseguire la fama, ma la verità. Non pensare a diventare famosi su Tik Tok, ma concentrarsi sul lavoro per andare lontano».
Il suo rapporto con la popolarità com’è stato?
«Da giovane mi sembrava una porta che attraversandola desse la chance di passare ad altre porte, in stanze in cui prima non ero autorizzato ad accedere. Con il tempo mi sono reso conto che la fama è solo uno specchio attraverso cui le persone pensano di sapere chi tu sia, ma è molto pericoloso. Si finisce per recitare per quella immagine riflessa, anziché fare un lavoro vero. Oggi sto ben attento che lo specchio sia voltato in un’altra direzione, non concentrato su di me, ma verso le persone».
Com’è stato passare dal cinema e dal teatro al mondo della serialità televisiva?
«C’è una sola differenza, quella tra recitare bene e recitare male. Se reciti bene e fai una serie tv hai una quantità di tempo incredibilmente maggiore per costruire il personaggio: stagioni che durano anni, non due ore di film. E questo per un attore fa la differenza».
Come le piacerebbe essere ricordato?
«Come uno che è stato fortunato a passare la vita a raccontare storie, sviluppando amicizie e rapporti speciali. Al di là dei premi, la cosa più importante per me è essere stato gentile e aver fatto il mio lavoro meglio che potevo».
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