Ha vinto il Pulitzer con il suo romanzo “James”. Ma lo scrittore afroamericano, caustico critico di Trump, è anche musicista e pittore. I suoi quadri ora in mostra a Milano

L'America nei colori di Everett: “Gli Stati Uniti oggi? Somigliano alla Germania degli anni '30"

Basta molto meno per risultare scomodo agli occhi di Donald Trump. Scrittore afroamericano prolifico e di successo, Percival Everett è un professore universitario e la sua bisnonna paterna è stata schiava per parte della sua vita. Proprio la schiavitù è al centro di “James” (edito in Italia da La nave di Teseo, traduzione di Andrea Silvestri, pp. 336; € 20), in cui l’autore riscrive “Le avventure di Huckleberry Finn” (1884) di Mark Twain dal punto di vista di Jim, schiavo nero e fuggiasco. Una rilettura dal basso che fa discutere e agita le coscienze. Come se non bastasse Everett vive a Los Angeles, la città più odiata dal presidente americano, che non ha esitato a spedirci i marines per reprimere le proteste contro le deportazioni dei presunti migranti irregolari.

 

Arriva a Milano dalla California lo scrittore, stavolta in veste di pittore. Ospite della Milanesiana, ideata e diretta da Elisabetta Sgarbi, ha inaugurato la sua prima mostra in Italia, “Logica predicativa”, alla Carlocinque Gallery fino al 2 agosto. Un progetto a cura di Elisabetta Sgarbi e Luca Volpatti. Sono ventidue le opere esposte, di cui 15 realizzate quest’anno: oli su tela, oli su tavola, stratificazioni, opere astratte, colori pieni di tensione. Si muove tra i suoi quadri Everett, parla con tono pacato, con uno sguardo acuto e pieno di ironia.

 

Everett, quando ha iniziato a dipingere?

«Ho cominciato ai tempi del college, a Miami. All’epoca suonavo la chitarra jazz per pagarmi l’università. Ho iniziato a scrivere più tardi. Musica e scrittura hanno in comune il ritmo, sono strettamente connesse. Li ho sempre considerati luoghi in cui esprimermi e conversare con il mondo».

 

Quali sono i suoi artisti di riferimento?

«Mi è sempre piaciuto Jackson Pollock. Da bambino mi capitava di ammirare i suoi quadri nei libri: “È davvero fantastico”, pensavo. Un giorno mio padre mi portò alla National Gallery di Washington. Rimasi immobile, senza parole, davanti a un suo dipinto. Mio padre, conoscendomi bene, fece: “Tornerò” e mi lasciò lì da solo mezz’ora. A parte Pollock, sono tanti gli artisti che amo. Ne cito tre: Franz Kline, Robert Motherwell, Rothko».

 

Che differenza c’è tra dipingere e scrivere?

«Dipingere è un atto molto più emotivo che razionale. Un’altra differenza fondamentale: per fare un quadro possono servire due mesi, per un libro ho bisogno di un paio d’anni».

 

In molti casi musica e pittura sono arti astratte. Tempo fa lei ha rilasciato un’intervista al New Yorker in cui racconta di aver cercato per anni di scrivere un romanzo astratto. Ci riuscirà un giorno?

«Mi piace l’astrazione. Quando dipingo non devo guidare chi osserva verso qualcosa. Con la scrittura, invece, solo a volte riesco a farlo e comunque non vorrei. Un giorno vorrei scrivere un romanzo astratto, anche se non so quale forma avrebbe. A pensarci bene non ne ho mai letto uno».

 

Ha mai utilizzato l’intelligenza artificiale per il suo lavoro?

«All’inizio ho pensato: “Può essere applicata in campo medico con ottimi risultati. Per una risonanza magnetica o una radiografia, ad esempio”. Oggi invece penso che non potrà mai sostituire l’osservazione umana. Di recente, un articolo generato dall’intelligenza artificiale ha riportato che quest’estate uscirà il mio nuovo romanzo, dal titolo immaginario “The Rainmakers”. E ha annunciato anche il nuovo libro di Isabel Allende. Bene, nessuno di noi ha un libro in uscita. Se l’intelligenza artificiale può fare quel tipo di errore potrà commetterne altri. Non vorrei essere la persona a cui è stata letta la radiografia realizzata con l’Ia».

 

Di vero invece c’è “James”, il romanzo con cui ha ottenuto diversi premi tra cui il Pulitzer e il National Book Award. Che effetto le ha fatto vincere?

«I premi sono quello che sono, non c’è da stupirsi. Mi è capitato di far parte di giurie, so come funziona: in un certo senso si tratta di meccanismi casuali. Certo, sarebbe bello vincere un premio ogni settimana, ma non migliora il mio lavoro. Mi procura più lettori, quello sì. Ed è meraviglioso (ride)».

 

Da dove nasce l’idea del romanzo?

«Vorrei avere una risposta romantica, dirle che ci ho lavorato per anni. È andata diversamente: un giorno, mentre giocavo a tennis, ho colpito la pallina con il mio rovescio spedendola fuori dal campo. Ho pensato: “Qualcuno ha mai raccontato la storia di “Huckleberry Finn” dal punto di vista di Jim?”. L’idea è nata così».

 

Lei fa parte di un ampio movimento che promuove la riappropriazione della storia e dell’immagine degli afroamericani nel mondo. L’America ha fatto i conti con la schiavitù?

«La schiavitù è sempre esistita. Ora negli Stati Uniti c’è una fazione che intende edulcorare la storia. Nello Stato della Florida, ad esempio, hanno proposto di sostituire nei libri di storia la parola “schiavitù” con l’espressione “trasferimento involontario”. Sono le stesse persone che proibirebbero i libri, li brucerebbero».

 

Concorda con chi sostiene che la storia del suo Paese è fondata sulla violenza?

«La violenza fa parte della razza umana. La cultura americana è violenta come quella di molti altri Paesi. È un mondo violento e lo è sempre stato, basti pensare alla diffusione delle armi negli Stati Uniti».

 

Quanto è radicato il razzismo?

«Dipende da dove abiti. Una persona nativa, ispanica o afroamericana che vive in Wyoming se la passa in maniera del tutto diversa da chi vive in Florida, ma provano la stessa sensazione quando vedono i lampeggianti blu di una macchina della polizia. Una persona bianca pensa: “Oh no, forse ho preso una multa”. Una persona di colore invece: “Potrei essere ucciso”».

 

Lei insegna alla University of Southern California. Le misure varate da Donald Trump contro gli studenti stranieri hanno colpito anche lì oltre che a Harvard e in altri atenei?

«Non sono a conoscenza di alcuna azione specifica intrapresa contro la mia università. Ma per tutti noi è allarmante che Trump lo stia facendo a Harvard. Se lo fa lì può farlo ovunque. Tra i nostri iscritti abbiamo molti studenti stranieri: li accogliamo con entusiasmo, alcuni di loro sono tra i nostri migliori. Alcuni studenti cinesi non rientrano a casa per paura di non poter tornare».

 

Come vede l’America del futuro?

«Non sono affatto ottimista. Viviamo in un regime fascista, in cui la gente non può manifestare e ogni protesta viene repressa con la forza. A Los Angeles hanno mandato i militari ma in realtà non ci sono state rivolte, semplicemente proteste. Il nostro sistema storicamente si basa sul dissenso, gli Stati Uniti nascono da una rivoluzione, dal diritto di esprimere liberamente le proprie idee anche se non piacciono. Siamo una nazione giovane e le cose stanno andando fuori controllo. Spero che le elezioni di metà mandato riescano a svolgersi, tuttavia non ne sono convinto. Mi dispiace dirlo ma nell’America di oggi sono molto evidenti le analogie con la Germania degli anni Trenta».

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