Cultura
21 agosto, 2025La scrittrice scozzese racconta il suo ultimo libro, “Gliff”, una parabola sulla precarietà dei diritti civili e sul potere della parola. Con un’ispirazione a sorpresa: il romanzo di Andrea Camilleri
Scozzese di Inverness, classe 1962, Ali Smith ha costruito negli anni uno dei corpi letterari più riconoscibili e originali della narrativa contemporanea in lingua inglese. Lei che della lingua ha fatto la sua patria letteraria: materia viva, da piegare, rovesciare, contaminare, mescolare. In oltre trent’anni ha firmato romanzi e raccolte di racconti che hanno ridefinito il perimetro del realismo letterario, mischiando sperimentazione linguistica e strutturale a una grande empatia poetica e umana. Ha raccontato l’Europa del post-Brexit, la crisi climatica, le migrazioni, i terremoti sociali e politici. Mai come una cronaca, sempre aggrappandosi all’elemento umano. Quattro volte finalista al Booker Prize, ha vinto tantissimi premi e i suoi libri sono best-seller.
Con “Gliff” (edito da SUR), Smith scrive una distopia che parla la lingua del nostro tempo, del presente. Nel romanzo, due sorelle quasi adolescenti, Briar e Rose, sono delle “non-verificabili”: persone fuori dai registri ufficiali, dello Stato, che il Governo reputa pericolose. Inseguite da un feroce sistema di sorveglianza, lontane dalla madre, le due vivono un Paese in cui le divisioni tra le persone sono nette. E qui devono sopravvivere, prendendosi cura l’una dell’altra. Una parabola sulla precarietà dei diritti civili e sul potere della parola: nominare è resistere, raccontare è sottrarsi alla cancellazione. In tempi in cui il controllo si traveste da sicurezza, “Gliff” ci ricorda che la lingua, la comunicazione con l’altro, l’empatia sono ancora i luoghi dove si decide la libertà.
Due ragazzine alla fine del mondo. Smith, da dove viene “Gliff”?
«Da un insieme di congiunture di eventi e scrittori: una notte di fine 2023, una feroce e lunga insonnia e l’incontro con un uomo siciliano e le sue due figlie, e poi da Kafka e Camilleri».
C’è un po’ di Italia, in questo romanzo.
«Più di quanto si possa credere. Nell’estate del 2023 mi chiesero di scrivere un racconto basato sulla letteratura di Kafka, in quel periodo stavo già lavorando a un romanzo ma qualcosa non funzionava, non riuscivo ad andare avanti, ero bloccata. E così mi lanciai a capofitto su Kafka. Ecco, quel lavoro, lo capisco solo oggi, fu il terreno in cui “Gliff” piantò le radici. Finito quel racconto, infatti, provai più volte a tornare al romanzo che stavo scrivendo, ma non ci fu niente da fare».
Le era già capitato?
«Diverse volte, ma quella fu una tra le peggiori. Avevo la netta sensazione che il mondo stesse diventando ogni giorno più pazzo (lo credo ancora). E questo mi portava grosse difficoltà di concentrazione. Era come ci fosse un tremendo rumore di sottofondo che non mi dava pace. Iniziai anche a soffrire d’insonnia come non mi era mai successo. Per diversi mesi dormii soltanto tre ore a notte».
Cosa accadde, poi? Come si risolse tutto?
«Allora entrarono in gioco il siciliano con le sue figlie e Andrea Camilleri. Una notte di fine dicembre, verso Capodanno».
Ci racconta?
«Io e Sarah, la mia compagna, stavamo tornando a casa dopo aver cenato fuori. Eravamo a piedi, e camminavamo sul marciapiedi, quando un uomo ci venne incontro e ci chiese aiuto. Lo avevamo già notato: camminava con le figlie, cercando di fermare i passanti per chiedere aiuto, ma nessuno lo aveva degnato di attenzione (lo scansavano senza neanche guardarlo). Noi invece ci fermammo. E lui ci chiese se in quella via potesse parcheggiare la macchina senza correre il rischio di una multa; il suo hotel era a pochi passi. Accanto a sé, le figlie di circa undici e nove anni. Due bimbe bellissime e stanchissime (era tarda notte) che lottavano contro il sonno; una, mentre noi parlavamo, si addormentò in piedi. A ogni modo, gli dicemmo che lì non poteva lasciarla, l’auto, ma che accanto a casa nostra, non lontano, avrebbe trovato posto. Gli demmo l’indirizzo e gli dicemmo che se fosse passato gli avremmo dato una bottiglia di vino; era quasi Capodanno e lui sembrava simpatico. Due ore dopo, Sarah e io ci stavamo preparando per dormire, bussarono alla porta: erano lui e le figlie, venuti per ringraziarci. Gli diedi il vino, poi se ne andò e pensai che non l’avrei più rivisto. La mattina dopo invece tornò: ci portò una scatola di cioccolatini, ancora per ringraziarci, e dall’ingresso notò i dipinti in casa. Gli spiegai che l’artista è Sarah, io scrivo libri e lui mi disse sulla sua famiglia avevano scritto un romanzo: uno scrittore famoso aveva raccontato la storia di alcuni suoi prozii. Era “La banda Sacco”, di Andrea Camilleri. Libro su dei suoi antenati di fine Ottocento. La settimana seguente lo lessi, lo trovai stupendo e prese a occupare ogni spazio nella mia testa. Ecco: dalla resistenza dei protagonisti del libro “La banda Sacco” e da quelle bimbe assonnate nacque “Gliff”».
Sanno di aver avuto un ruolo tanto importante per la nascita del libro?
«Non credo. Il romanzo è dedicato anche a loro tre, ma non li ho più sentiti o incontrati. E mi dispiace. Ma chissà, forse leggeranno questa intervista e lo scopriranno. Sarebbe bello».
Era già successo che una tale casualità avesse un ruolo tanto importante per la sua scrittura?
«Non ho chissà quali poteri sul processo di ideazione dei miei libri. Di solito, finisco a scrivere un romanzo perché il romanzo si stava già scrivendo davanti a me. Se una storia nella mia testa prende a svilupparsi, espandersi, arricchirsi in modo autonomo e pare intenzionata a non lasciarmi, be’, in quel caso quella storia devo scriverla. Ciononostante, questa casualità non l’avevo mai sperimentata. È stato stranissimo e molto bello».
L’uomo che incontrò quella notte chiedeva aiuto ai passanti, ha detto, ma nessuno si fermò; e aveva pure due bambine con sé.
«C’è in noi una sorta di ostilità nei confronti degli altri che trovo orrenda e che dovremmo cercare di superare per migliorarci in quanto esseri umani. Stiamo perdendo il contatto con l’altro, ed è triste e pericoloso».
Lo stiamo perdendo in funzione di cosa? Per quale ragione?
«Ieri ho preso un volo, e in aereo erano tutti a capo chino e con gli occhi piantati nei cellulari. Ecco la ragione».
Stiamo perdendo la capacità di empatizzare, secondo lei?
«Sempre più di frequente c’è uno schermo fra noi e gli altri, e questo, in qualche modo, ci separa. De-realizza l’altro».
Crede che il mondo stia peggiorando davvero, quindi? Non pensa che ogni generazione si convinca che la propria epoca sia peggio della precedente perché sta vivendo i problemi in presa diretta?
«Una cosa non esclude l’altra. Il nostro tempo è di cambiamenti che non fatico a definire peggiorativi, però. È la ruota della Storia, che gira e gira. Quando il punto di questa ruota non è positivo ci tocca spingerla, così da risollevarci»
Perché crede che il nostro tempo sia di cambiamenti peggiorativi?
«È sotto gli occhi di tutti, no? I diritti civili sono messi in discussione in diversi Paesi del mondo, l’economia non è in un momento florido, le guerre infuriano e fanno soffrire milioni di persone, le macchine ci stanno assorbendo. E quelle mi preoccupano molto».
Cosa la preoccupa, in proposito?
«La nostra incapacità di usarle nel modo più adeguato. Margaret Atwood disse che quando scopriamo o inventiamo una cosa nuova all’inizio la usiamo male, e solo dopo capiamo come usarla per il bene. Ecco, temo che la nostra epoca sia quella in cui le macchine le usiamo male».
Ha speranza per il futuro?
«Sempre avuta. Che senso avrebbe disperarsi?».
A proposito di Gliff. Perché tanta importanza a un cavallo?
«Li trovo stupendi. Intelligenti, gentili, dolci. Nei loro occhi ho sempre scorto la loro mente: sono esseri pensanti. E mi sono sempre domandata come debba essere, e quanto debba essere difficile, avere qualcosa da dire senza però la lingua per farlo. Se non puoi dire, non puoi essere compresa».
Lei si sente compresa?
«Non saprei rispondere. Sono più interessata a capire, più che il contrario. Poi, tra l’altro, non è tanto il risultato, la comprensione, che trovo interessante, quanto il processo».
L’idea dell’incapacità di comunicare la interessa?
«Il limite del nostro mondo è il nostro linguaggio. Per cui sì, mi interessa e mi ha sempre interessata. Fin da piccolissima, tra l’altro. Quando sentivo i miei parlare di qualcosa che non conoscevo. Ero curiosa».
A proposito dei suoi genitori?
«Persone amorevoli. Fui la quinta e ultima figlia (non ero in programma), e quando arrivai erano già piuttosto grandi e stanchi. Venni cresciuta pure dai miei fratelli e le mie sorelle, quindi, ma loro furono molto presenti. Non erano cresciuti in contesti ricchi, anzi: da bambini, nelle rispettive famiglie, erano stati relativamente poveri. Avevano dovuto lasciare la scuola quando avevano tredici anni, per andare a lavorare. E per questo tenevano tantissimo che noi studiassimo, che intraprendessimo percorsi sicuri per delle carriere stabili. Io avrei dovuto essere avvocata».
Come venne presa la scelta di tentare la carriera autoriale?
«All’inizio non benissimo, ma mi lasciarono comunque la libertà di scegliere per me stessa. Una delle mie sorelle è medica, l’altra un’insegnante. Per me i miei avevano già un piano, avevano programmato tutto, però io mi ribella».
Fu una ribellione vera e propria?
«Non ci fu alcuna rottura, intendiamoci. Come dicevo: mi lasciarono la libertà di scegliere. Ma che avrebbero preferito altro per me e la mia vita non me lo nascosero, anzi: me lo dissero chiaramente. Scegliere comunque di studiare letteratura fu un salto nel buio anche per questo: temevo di deluderli».
Erano vivi quando divenne una scrittrice di successo?
«Non mi sento di successo. Certi giorni non mi sento neanche una scrittrice. E ci tengo a dirlo. A ogni modo quando iniziai a pubblicare mia madre era già morta, accadde quando avevo ventisette anni. Mio padre invece c’era. Peraltro, era lei, mia madre, la più determinata a farmi procedere per una strada sicura, più strutturata, semplice».
Cosa crede avrebbe detto, fosse stata in vita?
«Onestamente non ne ho idea. Ma so che sarebbe stata felice. Nonostante tutto, che fossi libera era per lei la cosa più importante».
Per restare sulla libertà, allora. Si è mai sentita oppressa?
«Certo. Molte, moltissime volte. Sono gay, e sono abbastanza vecchia da avere attraversato epoche in cui i diritti della comunità LGBTQ+ sono stati attaccati in modo anche violento. Epoche come quella di oggi in cui i politici, per i loro scopi, hanno trovato nella comunità un nemico da dare in pasto all’elettorato».
I diritti civili oggi sono a rischio?
«Lo sono sempre, ma oggi lo sono più che in altre epoche; la ruota della Storia, appunto. Tempi del genere fanno tanti danni».
È mai stata vittima di omofobia?
«Diverse volte. Niente di eclatante, però è successo».
Smith, si sente libera oggi?
«Sì. Nonostante tutto, mi sento libera. E me la godo, questa libertà, senza mai dimenticare che non è qualcosa da dare per scontato. Senza mai dimenticare che è qualcosa per cui in alcune epoche si deve combattere».
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