Cultura
21 agosto, 2025Dall’isola-carcere di Santo Stefano all’inferno di Sednaya, Damasco, alla prigione di Tora, Il Cairo. Fino a Gaza: terra sigillata prima. E ora campo di genocidio. Luoghi che incarnano l’inumano
La massa corporea dell’isola-carcere di Santo Stefano emerge compatta dalle acque del mare pontino. Ancora di più quando, poco dopo l’alba, la nebbia nasconde l’acqua e rende l’isola-carcere un cretto sopra una nuvola lattiginosa. Un’astronave di roccia appannata e protetta dalla foschia.
Un’isoletta così vicina a Ventotene da poterla persino toccare con lo sguardo che si poggia sulle pareti verticali che salgono dall’acqua. È lo stesso sguardo, il nostro di esseri umani liberi, che si sofferma sulla struttura architettonica dell’antico carcere borbonico. Eppure Santo Stefano è e rimane, allo stesso tempo, un’isoletta così staccata da Ventotene. Perché è e rimane proibitiva, non solo nei racconti che ne hanno segnato la storia famigerata, crudele di istituto penitenziario doppiamente sigillato, proprio in quanto isola-carcere. Sigillato com’è Gaza, terra-prigione. A portata di sguardo e inaccessibile.
Il vero nodo della questione è che non ci sembra scandalo, tutto questo. Guardare Santo Stefano, nuotare alla sua ombra. Perché quello che introiettiamo è l’assoluta invisibilità dei corpi dei prigionieri, allora come oggi. Osservare Santo Stefano da distanza così ravvicinata significa immaginare, sopra quell’acqua, la struttura incombente e chiusa, sigillata e serrata. Serrata come un sepolcro. Come una tomba sui corpi dei vivi.
“Sembra di essere rinchiuse in un sepolcro.” Riecheggiano, in questo carcere divenuto simulacro della crudeltà delle carceri, le parole scritte oltre un secolo fa – nel 1917 - da Rosa Luxemburg in una lunga lettera alla sua amica Sonja Liebknecht, la seconda moglie di Karl, dalla prigione di Breslavia. Tomba, sepolcro. È, alla lettera, la stessa descrizione usata spesso da Luigi Settembrini. La tomba dei vivi. Essere sepolti vivi.
Sono parole che superano confini spazio-temporali. Uniscono come in un coro greco l’esperienza del carcere attraversando tutti i muri di contenimento e segregazione. Essere oggi, per esempio, nella quarta sezione di Santo Stefano, di fronte alle celle aperte, alle porte in ferro, agli spioncini arrugginiti, e ai letti di contenzione, fa tornare alla memoria – subito, immediatamente – la madre di tutte le carceri più crudeli dell’intero Mediterraneo. Sednaya, a Damasco, un inferno di cui ancora non si conoscono le proporzioni. Fa venire alla mente subito Il Cairo, la prigione di Tora, protagonista delle note dal carcere di Alaa Abdel Fattah, il più conosciuto prigioniero egiziano, che dedica pagine pesanti come pietra ai corpi resi invisibili, dimenticati, violati e considerati solo oggetti di proprietà delle guardie carcerarie e dei torturatori. Corpi annichiliti, come quello di Omar, un altro tra i prigionieri egiziani, che racconta dell’esperienza nella cella d’isolamento come la più vicina all’essere seppellito vivo. Omar come Luigi Settembrini, come Rosa Luxemburg. Omar e Alaa come Wole Soyinka e Nawal al Saadawi, come Sandro Pertini e Antonio Gramsci.
E i vivi tentano di non impazzire. Di conservare perfino brani di felicità. O di memoria di felicità. Lo fa Rosa Luxemburg, nel 1917. Lo fa qualche anno più tardi Sandro Pertini che è a Santo Stefano tra la fine del 1929 e il dicembre 1930, nella cella numero 36. Ha trentatré anni. Aveva già subìto condanne e arresti. E da Santo Stefano sarebbe stato trasferito per le condizioni di salute precarie e spostato a Turi, la prigione dov’era recluso – nello stesso periodo – Antonio Gramsci. Le anime frammentate del socialismo italiano si ricomponevano nell’universo concentrazionario: dietro le sbarre.
“La sveglia suona: è l’alba. Dal mare giunge un canto d’amore, da lontano il suono delle campane di Ventotene”, ricorda Sandro Pertini. E aggiunge: “Dalla ‘bocca di lupo” guardo il cielo, azzurro come non mai, senza una nuvola, e d’improvviso un soffio di vento mi investe, denso di profumo di fiori sbocciati durante la notte”.
Vedere in una mattina assolata quella bocca di lupo, sentire il soffio di vento, abbeverarsi a quel brano di cielo terso colore acqua di mare è stato un dono. Il dono della conoscenza, ma anche dell’empatia, della relazione. La cella di Sandro Pertini, una per tutte. La cella della libertà negata, a Santo Stefano come nelle prigioni egiziane, siriane, israeliane. In quella patria mediterranea al contrario che mette assieme gli scartati, i senzadiritti, e spesso – molto spesso – coloro che cercano proprio diritti e libertà, democrazia e stato di diritto. I prigionieri politici, appunto. Perché è proprio quel soffio di vento, quel sussurro a contenere tanti mondi, tante relazioni, tanti fili quanti sono gli esseri umani. E non solo loro. È il segno di Dio per chi ha fede, come lo è per il profeta Elia che pensa di aver trovato, rintracciato, sentito il divino in un soffio di vento, dalle parti della Giordania. È il segno di una relazione indissolubile con il mondo (e dunque, forse, anche il divino) per chi crede in un’armonia spesso perduta, da una parte all’altra delle coste di questo mare.
Santo Stefano dovrebbe incarnare la crudeltà che non ha più diritto di essere, in virtù di tutto ciò che hanno significato – qui, proprio qui, peraltro – resistenza all’oppressione e lotta al fascismo. Ai fascismi. Basta lasciare, però, che lo sguardo si apra oltre l’orizzonte che qui sembra così fermo, basta andare con gli occhi nello spazio e nel tempo. Oltre Ventotene, da Ventotene a Gaza. E oltre un passato prossimo che abbiamo considerato confortante, il passato dei diritti e dello stato di diritto, che abbiamo ritenuto acquisito, permanente, infinito. Con una miopia che solo ora appare a molte e a molti chiara.
È allora che la prospettiva cambia.
Non più il conforto, la consolazione, il mondo nostro illuso: l’universo concentrazionario in cui ci siamo rinchiusi da esseri umani liberi, da cittadine e cittadini italiani, europei, occidentali. Lasciando fuori dalla porta di ferro, dal nostro spioncino i diritti degli altri. I diritti di Gaza, che è però noi e lo stesso mare, noi e la stessa nostra umanità. Noi e il sussurro, noi e il soffio di vento che, comunque, sono riuscita a registrare fuori dalla cella di Sandro Pertini, sotto una delle palme, degli alberi, appunto.
Fuori dal carcere. In quel pezzo di nonumano che circonda il tufo, i mattoni, la calce, le sbarre di ferro, i portoni di ferro, i letti di ferro, le bocche di lupo, le celle anguste. Il nonumano che circonda l’emiciclo del carcere, il panopticon, le mura, e i tre ordini di celle da trentatré celle ognuno, come in un richiamo orrendo e scandaloso agli ordini dell’inferno, del purgatorio e del paradiso del nostro padre Dante.
Non posso non pensare a Gaza, nelle celle di Santo Stefano. O meglio, a Gaza ci arrivo attraverso un’altra cella, di un carcere israeliano che ho avuto la fortuna di visitare vent’anni fa. A Beer Sheva, per intervistare i prigionieri politici palestinesi. Compreso il più giovane tra i quattro con cui ho trascorso alcune ore in una cella. Zafer Rimawi, di Fatah, arrestato durante la Seconda Intifada, all’inizio degli anni Duemila. Di Zafer Rimawi ricorderò per sempre lo sguardo poggiato su un gatto, appena oltre le sbarre della cella, sul poggiolo della finestra.
Libero il gatto. Recluso il giovane Zafer.
Da Santo Stefano a Beer Sheva, nel Sud di Israele. Bir Saba, per i palestinesi. Gaza è a un passo, sarebbe a un passo, se non fosse per quell’universo chiuso, blindato, sigillato. Per quella prigione a cielo aperto che era veramente prigione sigillata, prima del maledetto 7 ottobre 2023. E che ora è il campo di un genocidio, un campo di sterminio della popolazione palestinese a opera di Israele.
C’è uno spesso filo comune di sottile e perversa crudeltà che unisce quei regimi carcerari che si fanno beffe di convenzioni e regole internazionali, e di sentimenti – come la compassione e l’empatia – che dovremmo considerare come assodati. Anche il brano di azzurro che vedeva Sandro Pertini fa parte di una crudeltà che trova osceno spessore nell’annullamento dei corpi. Nel nascondimento dei corpi. Il brano di azzurro della “bocca di lupo” è in tutto e per tutto l’orizzonte negato. A Pertini sull’isola-carcere. E ai palestinesi nella terra-carcere, di fronte a un mare solo in superficie orizzonte libero e infinito. Nei fatti, nella realtà, orizzonte illusorio, negato dalle navi militari israeliane che a pochi chilometri dalla costa bombardano e uccidono. Anzitutto i pescatori.
Il sudario che ha coperto per un secolo e mezzo i corpi dei vivi nel carcere di Santo Stefano era di tufo e mattoni e calce. Il sudario concreto, pesante, di Gaza è di cemento armato e tondini di ferro. Macerie di cemento come un sarcofago non sui corpi vivi dei prigionieri di Santo Stefano, ma sui morti, sugli uccisi, sui massacrati. Sulle vittime del genocidio per le quali non c’è neanche dignità di sepoltura, perse come sabbia sotto i milioni di tonnellate di macerie di palazzi e case, scuole e ospedali, università ed edifici pubblici, grattacieli e tende di fortuna. Sudari di cemento sugli uccisi, sui sommersi. Invisibili come invisibili erano i corpi vivi coperti dai sudari delle celle di Santo Stefano. Per entrambi, per i sommersi di Gaza e per i corpi reclusi e torturati e offesi di Santo Stefano, nessuna pietà umana.
I fantasmi che aleggiano, tra Santo Stefano e Gaza, interrogando senza sosta la nostra coscienza, di notte e di giorno. E riempiendo le notti e i giorni delle nostre macerie morali. Notti e giorni che sono impietosamente diversi rispetto al tempo prima del genocidio che li ha inesorabilmente cambiati, anche in quel grumo di isole confinarie e concentrazionarie, tra Ventotene e Santo Stefano e Ponza, nella cuccia confortante in cui un altro bozzolo, un bozzolo d’Europa, aveva visto la luce.
*Il testo inedito di Paola Caridi è stato scritto durante la quattordicesima edizione del Festival Letterario di Ventotene Gita al faro, diretto da Loredana Lipperini, ideato e organizzato da Francesca Mancini, Laura Pesino e Vania Ribeca, promosso dall’ Associazione per Santo Stefano in Ventotene Onlus, in collaborazione con la Libreria Ultima Spiaggia.
Il testo sarà contenuto nel libro “Sudari. Elegia per Gaza”, in uscita il 9 settembre (Feltrinelli) e presentato in anteprima in un reading al Festivaletteratura, a Mantova, il 2 settembre.
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