Cultura
26 agosto, 2025Guerre, cronaca nera, biografie. Quest’anno alla Mostra la fantasia trova spazio solo nei remake, nelle storie di follia. E in qualche film di registe non ammesse in Concorso
Sarà un anno pieno di sorprese!».
«Macché, intorno a questa Mostra serpeggiano esclusioni e conformismo».
«Ci sono molti nomi e temi nuovi sparsi nelle varie sezioni».
«Già, è nata perfino una nuova sezione, Spotlight, forse per moltiplicare i titoli sottraendoli agli altri festival. In Concorso però domina il club dei soliti noti: Ozon, Bigelow, Lanthimos, Del Toro, Park Chan-wook, molti già vincitori di Leoni e altri premi...»
«Esageri: i cinque italiani in Concorso, Leonardo Di Costanzo, alla sua prima volta, Pietro Marcello, Franco Maresco, Gianfranco Rosi, il misteriosissimo “La grazia” di Sorrentino, che è il film di apertura, sembrano molto interessanti».
«È vero, sulla carta nessuno dovrebbe sfigurare, francamente non succede sempre, ma quanti secoli sono che non vinciamo il Leone?»
«L’ultimo è stato Rosi nel 2013, con “Sacro Gra”».
«E infatti eccolo di ritorno, tre anni a Napoli per girare “Sotto le nuvole”, che prosegue la linea lirico-esplorativa con la Circumvesuviana al posto del Raccordo Anulare. Magari è una meraviglia, ma conosciamo la formula».
Venezia 82, cambiano i nomi ma non la musica. Ogni anno il direttore promette, la stampa borbotta, il pubblico che ieri fischiava oggi applaude (dalla cinefilia alla cinefagia: le nuove generazioni sono più ingorde e hollywoodiane delle precedenti). E la durata media dei film aumenta: ormai siamo largamente sopra le due ore, sarà buon segno? Le illazioni comunque hanno il fiato corto. Contano i film, i temi, le tendenze, ormai dettate dal mercato più che dagli autori. Ma proviamo ad abbozzare una parzialissima mappa di ciò che terrà sveglio il Lido dal 27 agosto al 6 settembre. Tessendo una fitta tela di rimandi a quanto non trova spazio nell’infodemia dominante, come ha sottolineato nella sua appassionata e insolita presentazione anche il neopresidente della Biennale, Pietrangelo Buttafuoco.
Sacri mostri
Da Frankenstein a Carmelo Bene passando per Eleonora Duse. Ogni Biennale ha i mostri che si merita e quest’anno a Venezia si va sul classico. La creatura assemblata dallo scienziato più celebre della letteratura fantastica torna all’originale di Mary Shelley nel “Frankenstein” di Guillermo Del Toro (Concorso). Non una ”creatura” femmina e bellissima, avida di sesso e emancipazione come quella interpretata da Emma Stone in “Poor Things”, ma un maschio in tutta la sua brutalità patriarcale. Anche se con Del Toro naturalmente non si può mai dire. Così come solo vedendo “Un film fatto per Bene” (Concorso) sapremo che strada ha preso Franco Maresco ripercorrendo la gestazione interrotta del suo film sul geniale regista-attore salentino. Tra autofiction e autodafè, il gioco si annuncia appassionante. E chissà che questo discorso sul teatro, le maschere, il tempo che segna inesorabilmente anche la finzione più totale, non dialoghi con il “Duse” di Pietro Marcello (Concorso), nuovo ritorno sulle tracce della leggendaria attrice italiana, dopo quello documentario e autobiografico di Sonia Bergamasco, condotto incrociando il talento senza rete di Valeria Bruni Tedeschi alla capacità di interrogare le immagini d’archivio che è il “marchio” di Pietro Marcello.
Piattaforme o forme piatte?
La libertà degli artisti, il diritto-dovere di sperimentare, la tendenza dell’industria a respingere le forme più libere e innovative, come se formule e regole potessero bastare, sono del resto temi centrali della Mostra. Tanto più quest’anno che Netflix torna in concorso con tre titoli. Il “Frankenstein” di Del Toro, “A House of Dynamite” di Kathryn Bigelow, thriller del genere countdown costruito sul lancio di un missile nucleare contro gli Usa. E il più riposante “Jay Kelly” di Noah Baumbach con George Clooney e Adam Sandler nei panni di un divo in crisi e del suo manager a zonzo per l’Europa, scritto come sempre con sua moglie Greta Gerwig. Tre grandi nomi, tre progetti sul filo del rasoio, anche perché solo “Jay Kelly” sembra destinato a uscire in sala. Ma proprio Baumbach, sempre così brillante, era meno convincente nel suo primo film Netflix visto a Venezia 2022, “White Noise”. Solo un caso? O l’abbraccio delle piattaforme “normalizza” gli autori? Guadagnino, fuori concorso con “After the Hunt”, molestie sessuali e scontro generazionale in un grande college Usa, scuderia Amazon, direbbe di no. Segue dibattito.
Dei delitti e delle pene.
Storie vere, sangue vero. In Italia la Giustizia è una piaga sempre infetta e il cinema cerca nella cronaca i segni di un’emergenza più vasta. Come fa Leonardo Di Costanzo con “Elisa”, dal libro di Ceretti e Natali “Io volevo ucciderla”, su una ragazza di buona famiglia che dieci anni dopo ammette di aver assassinato Ia sorella. Mentre in “Ammazzare stanca” (Spotlight) Daniele Vicari pedina il figlio di un boss calabrese trapiantato al Nord che negli anni 70 intraprende una rivoluzione personale. Più ironica la vendetta di un innocente spedito al fresco da un gangster geloso in “Motor City” di Potsy Ponciroli (Spotlight). La città è Detroit, gli anni sempre i ’70, ma non c’è una parola di dialogo.
Frontiere in fiamme
Una bambina di 5 anni intrappolata in un’auto a Gaza sotto il tiro dell’Idf, un film che usa la sua vera voce per riflettere sull’assedio e sul modo in cui viene percepito, una regista che ha già dato prova di grande talento, la tunisina Kaouther Ben Hania, con “Quattro figlie” e “L’uomo che vendette la sua pelle”. Evento annunciato, “La voce di Hind Rajab” (Concorso) è però solo il primo di una serie di film incardinati nei punti più caldi del pianeta. Trasportata a teatro, Gaza torna in “Who Is Still Alive” dello svizzero Nicolas Wadimoff (Giornate degli Autori). Mentre la storia recente del Libano e dell’Iran echeggia con toni e linguaggi diversissimi in due altri film delle Giornate: “A Sad and Beautiful World” di Cyril Aris e lo struggente “Gli uccelli del monte Qaf” di Morteza Ahmadvand e Firouzeh Khosrovani, realizzato prevalentemente con immagini riprese da telecamere di controllo. Coloni contro indigeni, indios in questo caso, anche nel docu della grande argentina Lucrecia Martel “Nuestra tierra” (Fuori concorso) . Ma brucia pure la frontiera che divide due cognate calabresi abitanti nella stessa palazzina e pronte davvero a tutto nel tragicomico docu di famiglia di Gianluca Matarrese “Il quieto vivere” (Giornate).
Fantasmi postsovietici
Come un pianeta esploso da tempo che continua a proiettare detriti nello spazio, la dissoluzione dell’impero sovietico alimenta titoli promettenti in ogni sezione sul filo di una memoria in divenire. In Concorso ci sono “Il Mago del Cremlino” di Olivier Assayas”, storia quasi vera dello spin doctor di Putin dal bestseller dell’italo francese Giuliano da Empoli, co-sceneggia Emmanuel Carrère. E “Orphan” di Laszlo Nemes, rivolta politica e generazionale nella Budapest del 1957, uno dei molti titoli della Mostra che combatte con la figura del Padre. Schegge postsovietiche investono poi i “Diari” 1965-1991 del sommo Sokurov, cinque ore di immagini di ogni tipo e provenienza; e “Notes of a True Criminal” del regista e produttore ucraino, ma attivo in Russia, Alexander Rodnyansky, quasi una controstoria dell’Urss narrata remixando immagini di repertorio. Mentre le Giornate affiancano idealmente altri due film autobiografici, “Memory” dell’ucraina Vladlena Sandu e “Short Summer” della russa Nastia Korkia. E l’elenco potrebbe continuare.
Alberi, alieni, remake
Tre epoche e tre storie viste con gli occhi - si fa per dire - degli alberi tra cui viviamo: è “Silent Friend” della grande ungherese Ildiko Enyedi. Un greco che rifà un vecchio film coreano (“Bugonia” di Yorgos Lanthimos, con Emma Stone rapita da due folli che la credono un’aliena) e un coreano che rifà un vecchio successo di Costa Gavras (“No Other Choice” di Park Chan Wook, anche qui complotti e grandi aziende). Mentre l’eclettico François Ozon affronta addirittura “Lo straniero” di Camus che già generò il film più infelice di Visconti. Tutti in corsa per il Leone, e chissà chi vincerà quest’anno l’ambito premio (non ufficiale) “Ma-Perché-Non Era-In Concorso”. Nel 2024 lo vinse a furor di popolo “Il tempo che ci vuole” di Francesca Comencini. Stavolta si candidano le due italiane di Orizzonti. La triestina Laura Samani, regista-rivelazione di “Piccolo corpo”, di ritorno con “Un anno di scuola” che rielabora e attualizza il romanzo di Giani Stuparich. E la milanese Carolina Cavalli, già autrice del molto amato “Amanda”, con “Il rapimento di Arabella”. Due storie di donne, due film di donne. Ragionare per quote non ci piace, ma alla prima stecca in Concorso sentiamo già le urla contro il direttore Alberto Barbera.

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