Cultura
1 settembre, 2025Nella serie dedicata al celebre caso giudiziario anni '80 il grande regista inquadra da maestro una stagione fondamentale del nostro Paese, sospeso tra neomodernità e barbarie
È una storia di invidia e vendetta, anche se la vittima e il persecutore non si conoscevano. È una storia scritta dai media e dai tribunali, come quasi tutte le storie dal '900 in poi. È la storia di un incredibile errore giudiziario e di un personaggio che tutti seguivano ma nessuno difese. Anche perché non era democristiano, né comunista e nemmeno massone. La sua unica “tessera” erano i 28 milioni di spettatori a sera che era arrivata a totalizzare il suo programma televisivo, “Portobello”. Iniziato nel 1977, ancora in bianco e nero, mentre la Rai stava ormai perdendo il monopolio. E interrotto solo dal suo arresto, nel giugno 1983, all'apice del successo.
È davvero un caso molto italiano, quello di Enzo Tortora, tanto che Bellocchio ne ha fatto il nuovo capitolo di quella storia non ufficiale del nostro Paese che va componendo almeno dai tempi di “Vincere”. Una serie stavolta, non un film, come successo già con “Esterno notte” per il caso Moro. Che però segue l'inconfondibile “metodo” dell'autore mescolando pubblico e privato, documento e allucinazione, repertorio e congettura. Come può fare solo un artista che ha frequentato diverse “chiese” e si è liberato da tutte, approdando a una maturità stupefacente per fecondità e profondità di sguardo. Con la complicità decisiva di un vasto gruppo di collaboratori e attori, in testa Fabrizio Gifuni. Cui qui va aggiunto un altro interprete davvero eccellente, Lino Musella, che almeno nelle due prime puntate viste a Venezia (le altre quattro sono ancora al montaggio) è lo scalpitante, inquietante ma a suo modo perfino empatico coprotagonista del racconto, parallelamente a Gifuni/Tortora.
Perché è questa la grande intuizione dell'appassionante "Portobello" (Fuori concorso a Venezia): la continua alternanza di due palcoscenici. Da una parte l'Italia finta ma più vera del vero che andava in onda, l'Italia eterna di nani, maghi e ballerine, col pappagallo, i fenomeni, gli ipnotisti, l'attrice centenaria (commovente ultima apparizione di Francesca Benedetti nei panni di Paola Borboni). Ma anche gli appelli di un paese minore che trova finalmente voce in quel programma-bazaar aperto a tutte le istanze e tutte le stravaganze (o quasi), con gli spettatori di ogni ambiente e ceto sociale incollati al teleschermo.
Dall'altra le carceri dove vivono o sopravvivono i camorristi, le lotte sanguinose tra clan rivali, il disprezzo e la violenza delle istituzioni. E su questo sfondo violento la figura dostoevskiana del piccolo camorrista assassino e autodidatta (Musella appunto) che legge, studia, scrive, riflette, cerca di elevarsi, guarda ossessivamente Portobello per le ragioni più contraddittorie e deliranti, cercando anche di entrare in contatto con Tortora dal carcere. Insomma prepara senza sapere le (false) prove che esploderanno come una bomba grazie alla sua “confessione” e alla miopia dei giudici, catalizzando il risentimento inconsapevole di buona parte del paese. E intanto cerca anche lui come può di sopravvivere, disegna, scolpisce, si arruffiana con tutti i mezzi un Cutolo scintillante di ferocia (un perfetto Gianfranco Gallo), legge Dante mentre arriva il terremoto, assiste dal carcere alla spartizione del fiume di aiuti che arriva dallo Stato per la ricostruzione.
Insomma scrive la sua storia parallela a quella di Tortora. Che nel frattempo edifica il suo contropotere mediatico, para i colpi di una Rai che non lo ha mai amato, anzi lo ha già silurato più volte, cerca di gestire fama e successo con l'aiuto di una sorella molto presente ma non onnipotente (un'attentissima Barbora Bobulova). Quindi affronta sgomento ma a testa alta l'arresto improvviso, le accuse assurde (spacciatore di coca per la camorra, nelle prime due puntate lo vediamo varie volte sniffare, ma forse non è come sembra), il fiume di fango che lo sommerge, la carcerazione.
Tutto condotto con quel piglio da grande racconto anche popolare, ritmo, dettagli, sentimenti sempre a fuoco, lampi di improvvisa e umanissima irrazionalità, che è la grande sorpresa dell'ultimo Bellocchio. Dunque senza mai nemmeno lontanamente cedere a quella medietà, quelle formule, quella spettacolarità obbligatoria e avvilente che domina tanta tv. E troppo spesso abbiamo incrociato anche qui a Venezia. Produce HBO, la serie completa si vedrà in primavera. Chi c'era riattraverserà quegli anni con occhi nuovi. Chi non c'era scoprirà scenari, poteri, conflitti, mentalità, difficili da immaginare altrimenti.
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