Cultura
17 settembre, 2025L’Osservatorio sul romanzo contemporaneo dell’Università di Napoli Federico II lo ha chiesto ai suoi studenti. I risultati, che raccontiamo in esclusiva, tracciano un’eloquente mappa di nomi, bisogni, visioni
Istanbul, 2003. Al café Pierre Loti, in cima al Corno d’Oro, un professore di chiara fama sta scrivendo poche righe di congedo per un’imponente opera einaudiana sulla millenaria storia del romanzo: un progetto di migliaia e migliaia di pagine che si avvale di uno stuolo di collaboratori autorevolissimi e che ha lui stesso ideato e coordinato nel lustro precedente - giusto a cavallo del millennio. L’uomo vorrebbe concentrarsi, ma viene continuamente distratto dalle candide irriverenze di una persona molto più giovane e in cerca di considerazione: «Ora, è il tempo delle risposte. Ma le risposte saranno altri a darle. Come la bambina turca che si è piantata al tavolino dove scrivo queste righe, e ogni volta che mi viene un’idea mi spinge via dal laptop e batte con l’indice il suo nome – Gizem – da qualche parte c’è una ragazza, o un ragazzo, che stanno leggendo queste pagine, attenti, sì, ma sotto sotto convinti di poter fare di meglio. E così sarà. A loro, buona fortuna».
Sono passati molti anni. Oggi quelle righe così toccanti e così poco accademiche di Franco Moretti – il nostro critico letterario più prestigioso e più internazionale – non ci parlano solo di una serenità di fondo che è bene mantenere sempre, in ogni naturale passaggio di testimone tra le generazioni; ci dicono anche altro. Ci dicono che forse è giunto il momento, per chi svolge il lavoro di docente, di giornalista, di ricercatore, di editor, di operatore culturale a qualsiasi titolo, di mettersi un po’ da parte e passare la parola a Gizem e a quelli come lei: di lasciare che scrivano finalmente il loro nome, e la loro storia. Quelle righe ci chiedono di prestare attenzione, infine, alle voci di coloro a cui stiamo consegnando o abbiamo già consegnato questo mondo, e questo tempo turbocapitalistico e confuso, trasparente e liquido, euforico e apocalittico; prestargli attenzione, intendo dire, non solo quelle volte in cui si tratta di crisi climatica o di guerre – temi che, con ogni evidenza, sentono e conoscono assai meglio dei cosiddetti adulti. No: prestargli attenzione sempre. Il romanzo, per esempio.
Se è vero che è la forma letteraria per eccellenza, e se è probabile che lo sarà ancora molto a lungo, fino a che punto è opportuno che un adolescente apprenda la natura e la struttura di un’opera narrativa esclusivamente da noi? Quanto ha senso che esista una cesura così marcata tra i libri che un giovane è solito leggere nella sua quotidianità e quelli che un canone predefinito gli propone come paradigmi? Quanto è formativo che un ragazzo subisca in modo passivo l’idea che “I promessi sposi” (cito di proposito quello a cui da sempre sono personalmente più legato) siano un romanzo migliore, o in qualche modo un romanzo “più romanzo”, di quelli usciti dalla penna della scrittrice-prodigio, e quasi loro coetanea, Sally Rooney? Quanto è sano, infine, che nel loro universo di affetti e di idee ci sia da un lato l’immaginario (cioè anche audiovisivi, videogiochi, musica) e dall’altro, sideralmente lontana, la “Cultura”?
Mi ponevo queste domande quando, circa un anno fa, la mia università mi chiese come di consueto il programma monografico del corso principale di Letterature comparate. Sin dal secondo lockdown avevo messo su, con Elisabetta Abignente, un Osservatorio sul romanzo contemporaneo che ospitava i lavori di dieci équipe animate da studiosi di età, storie e ruoli diversi: una sorta di attività collaterale, che non entrava da protagonista nella didattica ordinaria, consacrata invece ai classici. C’è stato un momento in cui mi son detto: anche quest’anno avrò una classe composta da centinaia di individui nati in questo secolo; non sarà forse il caso di farli lavorare, per una volta, su oggetti letterari della loro stessa età? Qualcuno mi ha risposto, con ottimi argomenti, che no, a vent’anni tu hai bisogno soprattutto di scontrarti con l’alterità e col passato, altrimenti ti mancheranno sempre le radici. Giustissimo. Ma se tutti si occupano delle radici, chi ci pensa ai rami e alle foglie? A che punto è il romanzo? è il quesito che ho formulato a una legione di studenti nati dopo il Duemila. Da loro, soprattutto da quanti hanno accolto con entusiasmo il mio invito a preparare degli elaborati, ho appreso molto. Ho allora deciso di accettare l’invito de “L’Espresso” a parlare del romanzo dei nostri anni, ma a patto di poter rilanciare alcune delle idee che mi hanno dato: non cavie, ma menti pensanti – spesso anche ottimamente pensanti.
Ciò che più mi preme è la restituzione di un’esperienza didattica e soprattutto la testimonianza di come questa generazione, spesso descritta come disattenta o devota unicamente a forme di narrazione più “contemporanee” e forse meno impegnative, al contrario legga, pensi, si emozioni, viva la letteratura con passione, e sappia anche guardarla in modo obliquo e critico, interpretandola e perfino storicizzandola. Le risposte degli studenti non compongono un canone, bensì un mosaico di esperienze, inquietudini e visioni: la letteratura contemporanea, per loro, sembra non essere tanto un patrimonio di monumenti, quanto un insieme di specchi e ferite attraverso cui riconoscersi. Proviamo ad ascoltarli.
Un primo dato, solo in apparenza sorprendente, riguarda la scelta di molti studenti di concentrarsi su romanzi che pongono al centro la soglia tra vita e morte, preferendoli tra le oltre cinquanta opere del terzo millennio proposte nel programma (secondo una tipologia molto varia, da Montalbano alle Benevole). Amabili resti di Alice Sebold, ad esempio, emerge come un testo cardine per la sua rappresentazione del confine tra i due mondi come non invalicabile e per la sua visione della morte come possibile sostegno alla vita. Anche “Everyman” di Philip Roth e un’opera nonfiction come “L’anno del pensiero magico” di Joan Didion trovano un’accoglienza entusiastica tra i ragazzi, che li affrontano spesso nelle tesine di fine corso per la loro crudezza nell’affrontare la morte: non sono allegorie rassicuranti, ma analisi impietose della perdita. Dobbiamo chiederci il motivo di questa scelta. Forse è anche l’ossessione di una generazione che cresce in un contesto fragile: pandemia, guerre, precarietà rendono centrali i temi del lutto, della sopravvivenza e della memoria.
Accanto a questo, emerge con forza la questione del corpo, declinata soprattutto al femminile. Gli studenti si innamorano de “La vegetariana” di Han Kang, leggendola come una parabola di rifiuto radicale, un gesto estremo che mette in discussione il controllo patriarcale. Un romanzo, quello della scrittrice sudcoreana, che affronta temi cruciali per i giovani, secondo una via che conduce dal vegetarianesimo al disturbo alimentare all’autodistruzione, e che riprende anche il tema straordinariamente contemporaneo del “corpo vestito” e dei tatuaggi. Anche le opere di un’altra scrittrice Nobel, Annie Ernaux, ricorrono come testimonianza incarnata, in cui il corpo diventa archivio, campo di battaglia, rivendicazione politica. Infine, e in vetta a un’ideale hit parade, “L’amica geniale” di Elena Ferrante si configura come il romanzo del millennio per il modo in cui narra la condizione della donna e la smarginatura: un corpo oppresso e al contempo insubordinato, che si sviluppa tra violenza, desiderio, rivalità e solidarietà.
Un terzo polo di attrazione è quello della distopia e del racconto apocalittico (o addirittura postumano) del presente: opere come “Non lasciarmi” di Kazuo Ishiguro e “La strada” di Cormac McCarthy vengono interpretate come moniti sulla deriva del progresso e sull’estinzione dei valori. Nei cloni di Ishiguro o nel bambino senza nome di McCarthy si cerca ancora un barlume di etica: l’anima, la compassione, la bontà che resistono persino in scenari disumani. In questo contesto, la letteratura è percepita come rifugio morale, bussola nel caos, capacità di immaginare un mondo meno crudele. Né mancano gli sguardi rivolti al presente più concreto: i libri di Michela Murgia, Giorgio Falco o Vitaliano Trevisan sono riconosciuti come strumenti di consapevolezza sociale, specchio di un Paese che trasforma i giovani in numeri e algoritmi, con lavori irraggiungibili e affitti impossibili. Leggere questi autori è stato per alcuni un modo per riconoscersi in una comunità di precarietà e sentirsi un po’ meno soli. Un’altra linea che s’impone è quella della letteratura come moltiplicazione di mondi. Murakami, il fenomeno dell’isekai giapponese, ma anche la saga di Harry Potter sono percepiti come modelli inaugurali di un immaginario globale che si espande in manga, anime, fan fiction, videogiochi, social network. La narrazione non è più solo testo, ma ecosistema transmediale, capace di dare forma a desideri e fughe.
A ciò si ricollega la riflessione sul tempo: Sally Rooney, Elizabeth Strout, ancora Annie Ernaux ed Elena Ferrante, ma anche scrittori come Paul Auster e Eshkol Nevo, l’autore di “Tre piani”, romanzo da cui Nanni Moretti ha tratto uno dei suoi ultimi film, raccontano vite scandite da cicatrici storiche e biografiche. Forse per i ventenni il tempo non è mai lineare, ma tende al curvo: è oscillazione, frammento, ricordo, un presente che si scioglie nel passato e nel futuro. I libri più suggestivi e appassionanti saranno allora quelli che li aiutano a collocarsi in questa instabilità, che mostrano come il tempo modelli identità e relazioni. Dentro questo paesaggio si può riconoscere un filo rosso: la letteratura del presente come una ricerca di senso nell’incoerenza. In modo solo apparentemente paradossale, gli studenti si appassionano a mondi distopici, corpi feriti, identità frammentate, desideri devianti; mantenendo però la convinzione che la scrittura possa offrire una via di salvezza.
Allora forse – in questa come in altre comunità di lettori uniti da interessi comuni – il “libro del millennio”, quello in grado di dirci a che punto è il romanzo, non esiste tanto come entità singolare, quanto piuttosto come una costellazione di opere oscillanti tra intimità e storia, dolore privato e fragilità sociale, distopia e speranza. Se Kafka auspicava che un libro fosse un’ascia per rompere il mare di ghiaccio che è dentro di noi (oggi più di sempre), i ragazzi del nostro tempo sembrano aver accolto l’invito: leggono le opere di Sebald, Mo Yan, Ellis, Carrère, Siti non come testi sacri, ma come strumenti per respirare in un presente spesso percepito come soffocante. La loro risposta alla nostra domanda non si limita a un titolo, ma si traduce in un bisogno. Diciamolo con tutta la semplicità del mondo: la letteratura più nutriente (più bella) del terzo millennio è quella che aiuta a vivere. Buona fortuna, Gizem!





LEGGI ANCHE
L'E COMMUNITY
Entra nella nostra community Whatsapp
L'edicola
Nuovo ordine - Cosa c'è nel nuovo numero de L'Espresso
Il settimanale, da venerdì 12 settembre, è disponibile in edicola e in app