Cultura
2 settembre, 2025Un techno-thriller tutto giocato su luoghi comuni (cinematografici) e riflessi condizionati (nostri) per ammonirci su una realtà non proprio inedita
L'ultimo film che non aveva molte ragioni di essere in Concorso a Venezia si intitola “A House of Dynamite” e l'ha diretto Kathryn Bigelow, alla sua prima volta con Netflix. Trattandosi della regista di film memorabili come “The Hurt Locker”, “ Zero Dark Thirty“ o il remoto “Point Break”, non vorremmo mancarle di rispetto. Ma il meno che si possa dire è che stavolta si tratta di un petardo bagnato. Un techno-thriller tutto giocato su luoghi comuni (cinematografici) e riflessi condizionati (nostri) per ammonirci su una realtà non proprio inedita.
Il mondo è imbottito di armi nucleari, sissignori, e se qualcuno preme il grilletto al momento sbagliato, o se gli addetti alla sorveglianza (leggi: militari Usa di stanza un po' ovunque nel mondo) non riescono a intercettare in tempo l'ordigno, siamo fritti.
Tutto qui, sul serio. Ma Bigelow ci tiene sulla corda per quasi due ore passando da una stanza dei bottoni all'altra cavalcando dubbi, indecisioni, tormenti, ordini e contrordini che rimbalzano da un luogo all'altro, da un segmento del film al successivo, dilatando e frammentando i 18 minuti che impiegherebbe il missile a cadere, presumibilmente su Chicago, in tre sottoepisodi legati ma indipendenti. Che però non appassionano mai veramente, anche perché popolati di personaggi così stereotipati, di situazioni così viste e riviste, che malgrado la (reiterata) trovata finale il tedio prevale sull'angoscia.
Apocalisse per Apocalisse, il “Bugonia” di Lanthimos al confronto è un capolavoro. Per non parlare del glorioso “Don't Look Up!” con Meryl Streep e Leonardo Di Caprio diretto da quel geniaccio della black comedy di nome Adam McKay. Sostituite la bomba col meteorite, la suspense con l'umorismo e siamo da quelle parti. Anche se non ci sembra che sia passato dalla casella festival.
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