Cultura
24 settembre, 2025Tra autobiografia, memoria e corpi fragili, la letteratura contemporanea italiana racconta vite comuni e storie da riscoprire. Con la voce di tre scrittrici e un esperto, prosegue la nostra indagine sul romanzo contemporaneo
Il romanzo è l’unico genere letterario in divenire e ancora incompiuto», scriveva nel 1938 il filosofo russo Michail Michajlovič Bachtin nel saggio “Epos e romanzo”. A quasi un secolo di distanza, queste parole mantengono intatta la loro attualità e il romanzo continua a essere terreno di sperimentazione. Non è un caso che uno dei dibattiti più recenti, emerso tra festival e saloni letterari, ruoti attorno a un interrogativo: a che punto è il romanzo oggi? Quale direzione sta prendendo? E quali sono i temi principali che attraversano la letteratura contemporanea?
Dal 2021, l’Osservatorio sul romanzo contemporaneo dell’Università di Napoli Federico II tenta di dare una risposta proprio a queste domande, tramite la creazione di un laboratorio di ricognizione narrativa curato dai professori Elisabetta Abignente e Francesco de Cristofaro. I risultati sono lo specchio di una generazione che viene spesso descritta come disattenta, ma che invece legge, pensa, si emoziona e cerca risposte.
A rafforzare l’idea che i lettori - anche i più giovani - desiderino ancora immergersi in racconti capaci di rispecchiare la realtà che li circonda è anche Viola Ardone, l’autrice del bestseller “Il treno dei bambini”: «Il grande romanzo dell’Ottocento non è morto: ha cambiato forma. Nessuno ha più la pazienza di leggere mille pagine fitte come “I miserabili”, ma la nostra società non è meno complessa di quella che Victor Hugo voleva raccontare. Il romanzo italiano di oggi spesso predilige l’intimo, l’autobiografico, il frammento. Non costruisce più cattedrali narrative, ma case con molte finestre da cui si affacciano vite comuni».
I temi scelti sono spesso simili, ma non per questo noiosi agli occhi del pubblico. Al contrario, conservano tuttora il potere di coinvolgere chi legge fin dalle prime righe, perché raccontano le sfide, i dolori e le vittorie dell’essere umano: «La memoria è sempre presente. Poi il corpo: la malattia, il desiderio, la fragilità. E la famiglia, tra affetti e rovine. Un filo rosso recente è la riscrittura della Storia da un punto di vista minoritario: le donne, i migranti, gli sconfitti. È una letteratura che non ama i trionfi, ma le crepe. La specificità italiana resta nella lingua e nel paesaggio: i nostri racconti hanno sempre un odore, una luce, un cibo», aggiunge Ardone.
Ed è proprio in queste storie che la tradizione - quella più antica, pura e semplice - continua a resistere nel tempo: tramandare racconti per preservare il passato. È così che l’uomo ha dato vita al concetto di comunità, fino al raggiungimento di un’identità collettiva. «Si leggono ancora le storie, solo che di meno rispetto a prima. Lo scrittore Stefano Benni, scomparso da poco, le amava. Nella raccolta “La grammatica di Dio” è presente uno dei suoi testi più belli, dedicato al fiammorgallo - lo “spirito del fuoco” - che scappa via quando gli umani smettono di raccontarsi nuove trame. Questo è grave, perché noi siamo sempre stati dei narratori per natura», interviene Loredana Lipperini, scrittrice e giornalista.
Secondo le due autrici, la forma del romanzo si modella sotto la pressione delle logiche commerciali. Il mercato è esigente: chiede libri vendibili, temi riconoscibili, protagonisti memorabili. Il problema nasce quando questi diventano gli unici criteri di valutazione: «È una vecchia tendenza: si cerca di cavalcare filoni che hanno avuto successo. Per esempio, funzionano le saghe familiari con protagoniste donne. L’apripista è stata Stefania Auci con “I leoni di Sicilia”. Da lì è partito un moltiplicarsi di libri su portalettere, levatrici e altri mestieri femminili. Ma quando si sceglie la strada facile, abbiamo un problema. Perché il vero nodo del romanzo è la capacità creativa: l’immaginazione, l’invenzione di mondi. E in questo momento, è debole», spiega ancora Lipperini.
Anche Melania Mazzucco - scrittrice e presidente del comitato direttivo che vaglia temi, scritture e tendenze emergenti del Premio Strega - sottolinea l’efficacia delle cronache familiari: «Credo che il nostro rapporto con il romanzo sia sempre stato un po’ d’amore e odio, abbastanza accidentato. Nelle letture che svolgiamo ogni anno, noto un’inclinazione verso l’autobiografia, che recupera vicende personali: rapporti con genitori e figli, matrimoni, malattia e rinascita, disagio mentale».
I legami affettivi si confermano un pilastro cruciale, in grado di risvegliare nei lettori le emozioni più autentiche: «“Perduto è questo mare” di Elisabetta Rasy identifica una tendenza degli ultimi anni: un ritorno alle radici, un viaggio della memoria alla ricerca dei genitori. Che qualche volta sono spariti in vita, come il padre del libro di Rasy. Altre volte sono morti, come il padre ne “La casa del mago” di Emanuele Trevi, ma sono “vivi” impercettibilmente negli spazi che un tempo erano loro», dice Claudio Gigante, ordinario di letteratura italiana all’Università di Bruxelles.
E conclude: «Scritti in prima persona, questi libri sembrano avvalorare l’antica intuizione di Aristotele, che nella “Poetica” individuava nei drammi familiari il tema che meglio di altri poteva suscitare pietà e terrore. Che non sia solo un’attitudine italiana lo testimonia “La vita immaginata” dell’americano Andrew Porter: anche in questo caso, un adulto che fa i conti con un padre sparito da anni, cercando inutilmente di capirne le ragioni. Perché anche in famiglia - ci suggeriscono questi testi - ogni individuo è mistero».
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