Cultura
8 settembre, 2025Il cold case per eccellenza. Un rompicapo senza fine dove ogni indizio porta sempre verso un vicolo cieco. La serie di delitti che ha cambiato per sempre il rapporto genitori-figli nell’Italia “perbene” degli anni Settanta
Un Decameron amaro, in cui il grottesco si mescola al tragico: riccastri deviati e semianalfabeti, bevitori molesti e prostitute, innocenti massacrati e inquirenti rubati al cinema. Il “Mostro di Firenze” ha lasciato dietro di sé non solo una scia di sangue, ma anche un carnevale di sospetti, false piste e processi che hanno trasformato la cronaca nera in un dramma corale. La serie Il mostro, diretta da Stefano Sollima, arriverà su Netflix il prossimo 22 ottobre nell’anno in cui ricorrono i quarant’anni dall’ultimo delitto.
Il viaggio a ritroso comincia dall’8 settembre 1985, nei boschi di Scopeti, dove i francesi Nadine Mauriot e Jean-Michel Kraveichvili vennero colpiti nel sonno: lei nella tenda, lui mentre tentava una fuga disperata nei campi. Solo l’anno prima, a Vicchio, erano stati trucidati Claudio Stefanacci e Pia Rontini. Nel 1983, al Galluzzo, toccò a due studenti tedeschi scambiati per una coppia di amanti. E nel 1982, a Baccaiano, Paolo Mainardi morì al volante nella sua corsa inutile verso l’ospedale, mentre accanto a lui Antonella Migliorini era già senza vita. Nel 1981, i duplici delitti di Scandicci e Calenzano segnarono la comparsa definitiva delle mutilazioni, divenute la “firma” del Mostro. Ancora più indietro, nel 1974, Borgo San Lorenzo con la diciottenne Stefania Pettini e Pasquale Gentilcore. E infine l’inizio di tutto: Signa, estate 1968, Barbara Locci e l’amante Antonio Lo Bianco massacrati sotto gli occhi del figlioletto.
Un repertorio di violenza (quasi) sempre uguale, la pistola Beretta calibro 22 come firma, e mutilazioni macabre sui corpi femminili che trasformavano l’assassino in una figura quasi mitologica, metà carnefice e metà spettro. Ed è proprio tornando al principio, a quel delitto di Signa del 1968, che riemerge una delle piste più controverse e mai del tutto sepolte: la cosiddetta pista sarda, tornata oggi sotto i riflettori grazie a un inatteso colpo di scena del DNA.
La pista sarda: il DNA riapre un capitolo dimenticato
Dopo decenni di depistaggi e indagini senza sbocco, a luglio 2025 la cosiddetta “pista sarda” è tornata improvvisamente sotto i riflettori. La definizione nasce dal fatto che molti dei protagonisti del primo delitto di Signa, come Stefano Mele e i fratelli Vinci, erano sardi emigrati in Toscana, e da lì prese forma l’ipotesi di un coinvolgimento di quel gruppo familiare. Un nuovo esame del DNA ha infatti stabilito che Natalino Mele, il bambino sopravvissuto al massacro della madre e dell’amante, non era figlio di Stefano, come si era sempre creduto, ma di Giovanni Vinci, appartenente alla famiglia da tempo nel mirino degli inquirenti.
Il collegamento con la Beretta calibro .22 usata a Signa, la stessa che sparerà in tutti i delitti successivi, sembra rafforzare l’idea di un filo diretto con gli anni a venire. Eppure la cronologia dimostra che alcuni omicidi avvennero mentre Francesco Vinci, fratello di Giovanni, era già in carcere: un paradosso che da sempre alimenta l’ipotesi che non si trattasse di un singolo individuo, ma di un gruppo ristretto.
La pista sarda non è l’unica mai battuta. Nel tempo si sono affacciate teorie esoteriche, che legavano le mutilazioni a presunti rituali satanici, e suggestioni complottiste che chiamavano in causa logge segrete e poteri occulti. Ma oggi, a distanza di quarant’anni, è proprio l’origine sarda del primo delitto a tornare in primo piano, come se l’inizio e la fine della storia si toccassero di nuovo.
Quando il Mostro cambiò le abitudini degli italiani
Il “Mostro di Firenze” portò in Italia un incubo da film americano: un killer che colpiva a distanza di anni, sempre uguale a sé stesso, lasciando famiglie intere sospese nell’attesa del prossimo agguato. Da allora, nelle case della provincia, i genitori cominciarono a cedere le chiavi ai figli, pur di non vederli appartarsi nei campi o in macchina; La Toscana contadina, fatta di personaggi da novella di Boccaccio e dolci colline, si ritrovò improvvisamente contaminata dalla modernità più cupa: automobili che diventavano trappole, la libertà sessuale trasformata in rischio mortale, la provincia elevata a palcoscenico di un dramma senza eguali.
Non patriarcato, ma ossessione maniacale
Recentemente, la figlia di Nadine Mauriot, l’ultima vittima del Mostro, ha sostenuto che quei delitti andrebbero letti come espressione di un odio patriarcale contro le donne. Una chiave interpretativa quantomeno ardita, ma che non regge davanti all’evidenza: le coppie furono sempre colpite insieme, con modalità rituali e ripetitive diverse ma che nulla hanno a che fare con la violenza di genere. L’assassino non voleva punire le donne in quanto tali, bensì agiva spinto da una mania ossessiva e compulsiva, scandita dalla stessa pistola calibro 22 e dalle mutilazioni post-mortem.
Bisogna allora dirlo con chiarezza: dobbiamo smettere di affibbiare al passato categorie contemporanee. Questi non furono delitti di stampo patriarcale, né atti di rivalsa maschile. Furono delitti maniacali, seriali, privi di qualsiasi cornice ideologica. Un orrore che appartiene alla follia di un singolo o di un gruppo ristretto, non a un sistema sociale.
Un enigma senza volto: chi è il vero Mostro?
Chi ha davvero sparato con la Beretta calibro .22 lungo quelle strade isolate? È stato Pietro Pacciani, il contadino finito nel mirino dei giudici, oppure Giancarlo Lotti o Mario Vanni, i cosiddetti “compagni di merende”, dichiarati colpevoli ma sempre privi di prove fisiche concrete? O ancora figure meno note, come Stefano Mele o i fratelli Vinci, al centro della pista sarda? E che dire di Giampiero Vigilanti, con le sue frequentazioni ambigue e perfino un anello legionario simile a quello descritto da alcuni testimoni? C’è chi ha puntato il dito anche contro nomi inaspettati, come il medico Francesco Narducci, o ha evocato perfino il legame con il serial killer americano Zodiac. Alla fine, il Mostro resta la figura più sfuggente di tutta questa storia: reale eppure senza volto, incubo collettivo e mistero indelebile della cronaca italiana.
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