Fanno pochi lavori di valore. Sono spesso inoperosi. Se non assenti. Demotivati. E anche malpagati. Viaggio tra i ricercatori delle università italiane

Il suo fascino ce l'ha, messo proprio dentro le mura della più grande università europea; a due passi da quel pregiato istituto di Fisica dove aleggia ancora lo spirito della mitica scuola romana (gli eredi di via Panisperna, per intenderci). Ma provate a entrarci dentro la sede di Antropologia del Dipartimento di Biologia animale e dell'uomo dell'Università di Roma La Sapienza: tre piani di cemento dove regna sovrano il silenzio. Provate ad aprire le porte, chiuse, per lo più, ma tutte con il nome di chi dovrebbe abitarle, corrispondente a uno stipendio erogato dal ministero dell'Università e della ricerca (Miur). Insomma: non c'è niente di più lontano da questo edificio semivuoto, un po' ammuffito e con i corridoi sporchi, dall'idea che abbiamo della scienza. Tanto che il professore ordinario di Morfologia umana è laureata in lettere, e ha vinto il concorso con una sola pubblicazione all'attivo, su una rivista minore e per giunta ancora in stampa al momento del concorso.

Intendiamoci, nessuno vuole dare la croce in testa a questo professore di Morfologia, di certo una degnissima persona che di certo nei prossimi anni pubblicherà tantissimo, né a questa deserta sede di Antropologia. Luoghi come questo ce ne sono centinaia nei campus italiani o nella miriade di istituti del Cnr sparsi nella Penisola.

Guardando in faccia uno a uno gli scienziati italiani scopriamo centinaia di ricercatori che ricercano davvero assai poco. Più burocrati che geniacci, vecchi e scarsamente retribuiti, se confrontati alle medie europee (vedi il link al grafico), poco produttivi e selezionati spesso sulla base di baronie più che di merito. Vivacchiano senza mezzi, ma anche senza idee, dando sempre la colpa ai pochi soldi e al 'sistema dei baroni'. Lamentandosi molto. E forse a ragione, perché è vero che i finanziamenti non ci sono ed è vero che il sistema di cooptazione della comunità scientifica è una palude in cui il merito sembra raramente essere il criterio dirimente nella scelta di chi deve andare a occupare un posto in ateneo. Ma una domanda sorge legittima: quanti dei pochi soldi destinati alla scienza nel nostro Paese vanno a pagare stipendi e benefit che con la scienza non c'entrano nulla? E quante sono le Aree di ricerca del Cnr da cui arrivano ben pochi contributi alla modernizzazione del Paese?

A Napoli, nella nuova sede del Cnr, poca la gente in giro. In compenso ci sono, come ormai in quasi tutti i presidi del principale ente di ricerca italiano, una serie di servizi dedicati alla pubblicizzazione: un Servizio di promozione della ricerca e sviluppo, ma al telefono non risponde nessuno, e uno di attività divulgative che ha prodotto una serie di video naturalistici locali con un paio di sconfinamenti, uno in Calabria e uno alle Isole Svalbard. Se questo è il trend non stupisce che soltanto il 6 per cento dei brevetti registrati dal Cnr trovi uno sbocco industriale e diventi licenza a fronte dell'89 di quelli registrati dal Mit, il Massachusetts institute of Technology, come ha raccontato l'economista bocconiano Stefano Breschi.

Ma che il Cnr sia nei guai lo riconoscono gli stessi dirigenti del primo ente di ricerca italiano. Altre, invece, sono le pretese dell'accademia che difficilmente accetta di essere esaminata. Eppure se il Cnr piange, l'università non ride. E persino in un luogo di eccellenza come Pavia, al dipartimento di Biologia animale, ha occupato un posto assai ambito una signora che negli ultimi 17 anni ha prodotto solo cinque lavori di ricerca di nullo impatto scientifico. Per avere un'idea del tipo di lavoro che, anche, si fa in quell'istituto: c'è persino qualcuno che dichiara di occuparsi di "misurare l'area del piede dei gasteropodi (le lumache), dopo averne acquisito l'immagine con uno scanner e attraverso un programma informatico fatto fare su misura". Magari a noi profani sembra una questione di lana caprina, ed è invece un dettaglio fondamentale. Ma se così fosse le temibili banche dati internazionali lo registrerebbero.

Perché la scienza è trasparente. E poggia su un principio cristallino: se una persona lavora bene, i risultati del suo lavoro devono essere pubblicati su riviste scientifiche, meglio lavora e più alto è il livello della pubblicazione (se arriva a 'Science', 'Nature', 'Cell' è più che bravo). Ma non è tutto: non serve a nessuno che un ricercatore lavori su dettagli insignificanti, e il suo vero valore non si basa sul numero delle pubblicazioni, ma su quante volte gli altri le citano, ovvero usano i suoi risultati per scoprire altre cose, e andare avanti. Dunque per sapere se uno scienziato è un fannullone o un farfallone basta contare le sue pubblicazioni e le sue citazioni. E le comunicazioni a congresso non sono considerate rilevanti. I software che fanno questo mestiere sono diversi: noi abbiamo usato Publish or Perish (chiamato così perché, effettivamente, nei paesi anglosassoni, uno scienziato che non pubblica va a casa), che ritrova tutte le pubblicazioni e le citazioni di un ricercatore dalla banca dati di Google Scholar (tra le più permissive). E abbiamo scoperto che di stipendi discutibili il Miur ne eroga un bel po'.

Naturalmente non basta campionare a caso laboratori e dipartimenti. E allora siamo andati a vedere qual è l'impatto scientifico delle università italiane e del Cnr. Quest'ultimo sta ben al di sotto dei suo enti cugini: il Cnrs francese e il Csic spagnolo. Ma, nonostante lo sfascio conclamato in cui versa, è, come mostra il grafico intitolato 'Cenerentole d'Europa', ben al di sopra della media delle università italiane. Che sembrano oggi spesso luoghi del sapere dove di sapere ne gira ben poco. Lo mostrano bene i grafici intitolati 'Università sotto esame' che documentano la produzione scientifica degli atenei italiani misurata col rapporto tra le citazioni ottenute sulla stampa scientifica internazionale e i fondi ricevuti. La mediocrità è la regola. E a svettare sono in poche. Il che non significa che non ci siano picchi di buona scienza. Tutt'altro: a sentire gli addetti ai lavori (vedi la scheda 'Quattro ricette d'autore') il mondo scientifico italiano è fatto di pochi eccellenti gruppi sparsi qua e là, e di una massa ameboica di persone che non fa o non è in grado di fare buona scienza.

Perché, se è vero che l'università deve anche fare didattica, è anche vero che gli standard europei, nel fare diagrammi su costi e rendimenti degli universitari, stimano che il rapporto tra attività di docenza e di ricerca debba essere del 50 a 50. Dunque, non è possibile bluffare: chi fa scienza è facilmente riconoscibile dai suoi pari. Anche se raramente questo si riflette nel processo di selezione. Così, racconta uno dei migliori matematici del mondo, Franco Brezzi: "Ci sono interi dipartimenti che pullulano di incompetenti". E così, uno dei più brillanti storici della medicina europei, Bernardino Fantini, oggi professore all'università di Ginevra, ha sostenuto un concorso per una cattedra di Storia della medicina all'Università di Padova. Aveva al suo attivo decine di pubblicazioni, la direzione di un istituto in Svizzera e la presidenza dell'Associazione europea di storia della medicina, ma ha perso. Battuto da una signora che tra il tra il 1990 e il 2007 non ha pubblicato nulla che l'Isi, la più celebre tra le banche dati scientifiche, abbia ritenuto degno di annotare.

Chi pensi che la storia della medicina risenta delle cattive abitudini baronali dei letterati, ancorché afferisca alle facoltà scientifiche, può spostare l'orizzonte verso Sud. Dove c'è ancora l'eco della bocciatura di un cervellone emigrato, Giulio Francesco Draetta, che ha fatto il ricercatore agli Nih di Bethesda e il direttore di ricerca all'European Molecular Biology Laboratory di Heidelberg, ma non è riuscito nemmeno a vincere il concorso di professore associato di Biologia molecolare all'Università di Napoli: a nulla sono valse le sue 750 pubblicazioni contro le 27 di chi ha vinto. Così oggi lui fa il vicepresidente della multinazionale farmaceutica Merck e il consigliere scientifico dell'Istituto di oncologia molecolare voluto da Veronesi a Milano.

"Ma quale ricerca? Non se ne fa più da tempo", sbuffa Francesco Quaranta, ingegnere navale alla Federico II di Napoli che invece pubblica parecchio. Ma nel giudicare, forse, pensa a un recente concorso di professore ordinario di Manovrabilità delle navi alla Facoltà di Scienze e Tecnologie dell'Università Parthenope di Napoli: chi ha vinto ha contribuito alla scienza con nove articoli tra il 1990 e il 2003, poi più nulla, salvo qualche presentazione ai congressi. Che alla Parthenope la scienza non sia una priorità sembra di capirlo anche dalla classifica che stiliamo nel grafico di pagina 83. Eppure in questa università i ricercatori sono 200 e i fondi arrivano copiosi: sempre il grafico di pagina 82 mostra che uno scienziato della Parthenope, uno che scrive nove articoli in 17 anni, ad esempio, costa più di ogni altro scienziato italiano.

Parthenope, come molte università nate di recente, magari per una ragion politica, non sembra avere una vocazione scientifica. Come non ce l'hanno al Polo scientifico di via Vivaldi a Caserta, uno dei campus della Sun (Seconda università di Napoli), o alla Mediterranea di Reggio Calabria, all'Università di Macerata, tanto per prendere quelle sedi che secondo il nostro lavoro di valutazione stanno vicine allo zero. Ma non è solo in queste università poco orientate scientificamente (che però ricevono per intero i Fondi di finanziamento ordinario del Miur), che non tutti i ricercatori ricercano.

Il sottosegretario Luciano Modica, il nume dell'università, a un incontro con i ricercatori italiani nel Regno Unito nel gennaio di quest'anno ha raccontato che l'Università di Pisa ha fatto il rating professionale dei suoi scienziati e scoperto che 200 su 1.800 non avevano pubblicato nulla. Modica era contento, gli pareva un buon standard, e certo lo è su scala nazionale. Ma se andiamo a vedere bene: nel nostro diagramma Pisa si colloca entro le prime 20 università, e circa il 10 per cento degli scienziati non pubblica. Non perdiamoci nei calcoli, ma possiamo legittimamente chiederci: quanti sono i ricercatori che ricercano sui 60 mila scienziati italiani? Pochissimi.

Non stupisce, allora, che l'Italia sia la Cenerentola europea. Nella classifica delle 500 migliori università del mondo stilata dalla Shanghai Jiao Tong University, l'Italia compare solo in 102-esima posizione, con il parimerito di Milano (Statale), Pisa e Roma La Sapienza. E va anche peggio nella classifica sulle eccellenze scientifiche redatta dal 'Times': questa volta la prima italiana è l'Università di Bologna, in posizione 173, seguita dalla Sapienza di Roma. I criteri utilizzati per stilare le due classifiche sono diversi, ma il succo rimane uguale: mentre l'Europa, nel suo complesso, regge bene il confronto mondiale, l'Italia appare malconcia, con nessuna università tra le prime cento del mondo. E il Consiglio nazionale delle ricerche, con i suoi circa 7 mila scienziati attivi, non va meglio.

Di solito, arrivati a questo punto del discorso si dà la colpa alla scarsità di fondi. Vero: investiamo in ricerca l'1,10 per cento del Pil contro una media europea dell'1,78 (ma gli Usa investono il 2,67 per cento). Anche per questo abbiamo, in confronto, pochissimi ricercatori: solo 2,9 per mille unità di forza lavoro, contro i 9,7 degli Usa, gli 8 della Germania. Ma anche in questa girandola di numeri conviene andare a vederci chiaro. Lo ha fatto, in uno studio famoso pubblicato nel 2004 su 'Nature', David King, già consigliere scientifico di Tony Blair. King riconosce all'Italia il settimo posto in una classifica mondiale della produzione scientifica complessiva. Se però mettiamo questi risultati in relazione agli investimenti fatti, la musica cambia e passiamo in picchiata dalle prime alle ultimissime posizioni della classifica. Perché, a ben guardare, rispetto al numero di ricercatori, i nostri investimenti non sono pochi. Sebbene la nostra comunità di ricercatori sia più piccola di quella di altri paesi, per singolo ricercatore non spendiamo meno degli altri: in Europa, Giappone e Usa un ricercatore costa in media 180 mila euro all'anno, da noi poco più di 204 mila euro. E questo sposta decisamente l'attenzione dalla scarsità dei finanziamenti, che pur c'è, alla scarsa produttività dei ricercatori.

Intendiamoci, non sempre la scarsa produttività è indice di cattiva volontà: la scienza è un'impresa molto complessa e per riuscire occorrono fondi, capacità e anche un po' di fortuna. Può succedere di non riuscire a ottenere risultati: il fatto è che, in queste condizioni, sarebbe meglio cercare un'altra strada. "Ecco perché non sono affatto d'accordo quando sento parlare di stabilizzazione dei precari", afferma il biochimico Ernesto Carafoli, uno degli scienziati italiani più citati al mondo: "Su cento persone che iniziano, solo dieci hanno i numeri per andare avanti, e solo questi devono fare i ricercatori. In Usa, in Svizzera, in Francia, il lavoro di chi fa ricerca viene valutato periodicamente per stabilire se è il caso di riconfermare la posizione o meno".

Come dire, la scienza è un'attività estremamente dinamica e competitiva. È un affascinante campo di battaglia dove si viaggia alla velocità della luce. Chi sta al passo gioca, chi traccheggia è fuori in men che non si dica. E l'Italia, salvo alcuni gruppi di eccellenti, sembra ormai fuori dai giochi.

ha collaborato Mario Fabbroni

LEGGI ANCHE

L'E COMMUNITY

Entra nella nostra community Whatsapp

L'edicola

Il rebus della Chiesa - Cosa c'è nel nuovo numero dell'Espresso