Soldi? Praticamente zero. Facilitazioni? Certo che no, piuttosto trabocchetti burocratici a rotta di collo. Aiuto dalla politica e dal governo? Non pervenuto. Prestigio sociale? Meglio andarselo a cercare all'estero. Eppure, pressoché ignorati dal Paese e totalmente sottofinanziati rispetto agli standard europei, gli scienziati italiani sono bravi. Faticano come matti tra moduli ministeriali e istituzioni-carrozzone; vanno a cercarsi i soldi in Europa, in America e persino in Russia; sopravvivono dentro edifici che non vedono un idraulico o un imbianchino e nemmeno un lavavetri da decenni. Ma scoprono cose di grande importanza e pubblicano articoli usati per il loro lavoro da migliaia di scienziati nel mondo. Sono, malgrado la politica e il Paese che li ignora, una costola importante della modernità che ogni giorno si plasma nei laboratori di tutto il mondo.
A quantificare il lavoro dei nostri scienziati, però, non è stato il ministero di Roma, ma il primo consigliere scientifico del passato governo britannico, David King che, in un articolo su "Nature", ha calcolato l'impatto scientifico delle nazioni e individuato la comunità scientifica italiana come una delle più brave al mondo. In proporzione, è ovvio, alle sue forze.
Nessun confronto ha senso, infatti, se non si considera che in Italia i ricercatori sono 96 mila, meno della metà di francesi e tedeschi e meno anche dei 131 mila spagnoli. E con 19 miliardi di dollari l'anno spesi in ricerca e sviluppo (appena l'1,1 per cento della ricchezza nazionale), l'Italia è dodicesima al mondo nella classifica degli investimenti, decisamente dietro ai partner del G8 ma anche alle potenze emergenti e alla Corea del Sud. Con la grande industria a brillare per la sua assenza: meno del 40 per cento dei ricercatori lavora nelle imprese contro il 70-80 di Francia e Germania. E non a caso i settori come la chimica farmaceutica, che più dovrebbero essere fertilizzati dallo scambio tra privato e pubblico, sono quelli in cui più abbiamo dilapidato la forte tradizione del passato.
A fronte di questo, però, l'Italia è ottava per quantità di lavori pubblicati, sia nelle rilevazioni più recenti sia nell'insieme dell'ultimo quindicennio. Conclusione: gli italiani, pur con meno soldi, producono molto più dei loro colleghi, addirittura il doppio di francesi e tedeschi. E non solo: producono anche bene.
L'importanza di una pubblicazione si misura in prima istanza da quanto è citata nei lavori successivi. Ebbene, gli italiani sono nella media europea. Ma se consideriamo i lavori davvero straordinari - quell'1 per cento di articoli che ottiene più citazioni al mondo - l'Italia ne ha prodotti 23 ogni mille ricercatori, più di Francia e Germania, e anche degli Usa che dominano incontrastati sotto ogni altro aspetto.
Modello anglosassone
Ma basta lodarsi. Andiamo a vedere in concreto cosa succede nei laboratori italiani. Per scoprire che il panorama non è omogeneo e che l'eccellenza è concentrata in poche discipline. "La mappa della produzione scientifica è molto disomogenea, abbiamo montagne molto alte e depressioni profonde. Ma, nell'insieme, il Paese conserva un patrimonio intellettuale molto ricco", spiega Alberto Mantovani, prorettore alla ricerca all'Università di Milano e direttore scientifico dell'Istituto Clinico Humanitas, tra gli immunologi più citati del mondo. E, un po' a sorpresa, proprio l'immunologia, competitivissima e superfinanziata all'estero, è una delle eccellenze italiane, come la genetica e la biologia molecolare, l'oncologia e lo studio molecolare dei vegetali.
Come mai? Questi sono settori che vedono migliaia di ricercatori agguerritissimi, ancora più eccitati dalla competizione che oggi arriva dalla Cina, e supportati all'estero con milioni e milioni di dollari sia dei governi che delle industrie. In Italia non è così. Di fatto a dare ai bioscienziati italiani quell'impulso necessario a cercarsi i soldi all'estero è la forza di una tradizione che affonda le sue radici negli anni Sessanta e Settanta, gli anni del boom scientifico italiano, alimentato dalle scuole di biologia di Roma e Pavia (per citare le più blasonate, ma non solo), dal formidabile talento dei farmacologi, come il Nobel Daniel Bovet, arruolati da un'Istituto superiore di sanità allora agguerrito e determinato, e dall'impulso di un'industria farmaceutica aggressiva, quella che portò alla scoperta di uno dei primi e più potenti antitumorali, l'adriamicina, da parte dei pionieri dell'oncologia medica all'Istituto dei tumori di Milano.
Oggi l'Iss è impantanato nella burocrazia, l'industria si occupa praticamente solo di marketing e ad aiutare i ricercatori biomedici italiani ci sono soltanto le charity, prime fra tutte Airc e Telethon, che sopperiscono alle carenze di fondi pubblici. Ma soprattutto, cosa del tutto inedita in Italia, finanziano con metodi anglosassoni, basandosi esclusivamente sul merito e sulla trasparenza. "L'Airc ha fatto da battistrada importando il modello anglosassone: una valutazione internazionale, la gestione è trasparente. È un modello da cui il settore pubblico dovrebbe imparare", chiosa Mantovani. Un altro punto di forza è la sanità pubblica: è la disponibilità del Servizio sanitario nazionale come un grande laboratorio di ricerca clinica ad aver permesso sperimentazioni che hanno fatto la storia della medicina, come i classici studi Gissi sull'infarto. "Una delle sfide ora è di coltivare le aree forti come questa, non lasciarle deperire", si augura Mantovani.
I nipotini di Fermi
Fisica, astronomia, matematica: insomma le scienze dure e pure che nessuno capisce. L'opinione pubblica si balocca col disprezzo tutto italiano per i metodi matematici, ma i nostri geniacci dei numeri sono bravi sul serio. "La quantità e qualità dei lavori, i finanziamenti e i premi internazionali ottenuti, ci dicono che la fisica italiana ha ancora un ruolo da protagonista mondiale. Tra i migliori 20 dipartimenti di fisica europei ce ne sono ben quattro italiani", afferma Giovanni Amelino-Camelia, classe 1965, ricercatore a La Sapienza di Roma, che "Discover" ha segnalato fra gli eredi di Einstein.
È l'eredità di figure geniali come Enrico Fermi che ha portato benefici di lungo termine avviando una tradizione rinnovata poi con Edoardo Amaldi, Nicola Cabibbo e i grandi fisici della scuola romana e del centro di fisica di Frascati. Ma non solo. "In qualche modo la tradizione culturale italiana sembra produrre un'attitudine verso questa scienza: se confronto gli studenti che incontro qui con quelli che vedevo a Oxford o al Mit, ne trovo tanti che hanno un tipo di talento e una certa, ardente passione che altrove è molto meno comune", aggiunge il fisico.
Non si vive però di sola tradizione, e la penuria di finanziamenti sta raggiungendo livelli non più compensabili con l'ingegnosità e la disponibilità dei giovani precari a stipendi da fame. Il grande esperimento in corso all'acceleratore di particelle Lhc del Cern di Ginevra, inoltre, quando terminerà segnerà la fine di un'epoca e imporrà un rinnovamento della fisica. Una sfida stimolante ma impegnativa cui anche l'Italia dovrà adattarsi, cosa non facile senza una vigorosa iniezione di energie.
Con la testa oltre le nuvole
Tra chi non si arrende c'è Michele Bellazzini, ricercatore dell'Istituto Nazionale di Astrofisica all'Osservatorio Astronomico di Bologna. Agli inizi della carriera aveva ricevuto offerte allettanti dagli Usa, ma ha scelto di restare. Si è dovuto adattare a fare il bibliotecario, studiando nell'attesa di un concorso da ricercatore che è finalmente arrivato dopo qualche anno. Una scelta premiata dai risultati, fra cui, nel 2003, la scoperta di quella che potrebbe essere la galassia nana più vicina alla Terra, quella del Cane Maggiore: nonostante la vicinanza, era sempre sfuggita agli astronomi perché nascosta in una zona densa di stelle e di fitte nubi. "Dopo 13 anni, con oltre 100 pubblicazioni, sono ancora ricercatore. I soldi sono sempre meno e si preferisce, giustamente, usarli per assumere qualche giovane anziché per far fare carriera a chi già c'è". Ma il professore resta a Bologna, anche perché sul piano scientifico, viceversa, c'è poco da rimpiangere: "L'ambiente è stimolante, la gente capace, e abbiamo accesso a strumenti d'eccellenza come il telescopio Vlt in Cile, grazie alla partecipazione a consorzi europei come l'Eso (European Southern Observatory), garantita da solidi accordi internazionali".
Insomma, ad assistere i bolognesi con la testa nello spazio non ci pensa Maria Stella Gelmini, ma l'Europa. E in questi giorni sono in arrivo due grossi finanziamenti internazionali. Uno è stato vinto dai bolognesi, l'altro è stato portato da uno scienziato statunitense che ha scelto di andare a spenderlo lì perché vi trova i colleghi e l'ambiente ideali per il suo progetto. Peccato però che da anni la sede sia sottodimensionata e non si sappia dove mettere il plotone di ricercatori in arrivo. "Ci portano 3 milioni di euro e dobbiamo fare un piano d'emergenza per capire dove farli sedere", osserva Bellazzini.
A Trieste, il mondo
Una sede tutta nuova ce l'hanno alla Sissa di Trieste, che è, con la Normale di Pisa una delle poche istituzioni italiane a svettare nelle classifiche di qualità internazionali. Grazie anche al fatto che, eccezione nel nostro Paese, ha deciso d puntare sui giovani. "A 36 anni ho allestito un mio gruppo con totale indipendenza scientifica, come è normale negli Usa ma non certo in Italia", dice Davide Zoccolan, che, dopo sei anni al Mit e ad Harvard, nel 2009 è rientrato per fondare il Laboratorio di neuroscienze visive con fondi dell'Accademia dei Lincei e della Compagnia di San Paolo.
Alla Sissa che i soldi li si debba andare a cercare un po' dappertutto tranne che a Roma lo hanno capito ben bene. Tanto che il matematico Boris Dubrovin si è procurato circa due milioni di euro dal ministero dell'Educazione e della Scienza russo. I fondi italiani ed europei non bastano? Dubrovin ha pensato di chiederli al suo Paese natale e mettere per ciò in piedi un progetto di fisica matematica operativo tra la Sissa e la Lomonosov State University di Mosca. Perché, spiega ancora Zoccolan: "Sul piano scientifico non c'è differenza tra quello che si può fare qui e quello che si andrebbe a fare all'estero".
Ciò che fa la differenza sono le prospettive di carriera e i mille impacci della burocrazia, che in Italia rendono un incubo anche l'acquisto di uno strumento. Si comprende quindi l'appello di Mantovani: "Ci danno un'auto un po' scassata, e con poca benzina. Allora il carburante e i pezzi di ricambio ce li troviamo noi... Però, almeno non metteteci il freno a mano. Le procedure per gestire soldi e personale sono pesantissime, quelle per fare entrare i cervelli dall'estero umilianti. Sono un freno a mano tirato. Toglietecelo".