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Dossier
aprile, 2022

Come essere eliminati da un mondiale e vivere (quasi) felici

Dopo la batosta contro la Macedonia del Nord, i dirigenti del pallone azzurro continuano imperterriti nella loro pantomima fra tavoli di riforme e poltrone eterne. Plusvalenze, bilanci taroccati, vivai asfittici, gioco inguardabile, pubblico in fuga. Ma la colpa è sempre degli stadi vecchi, dei procuratori, delle tasse. E della playstation

È il 31 marzo 2022 e a Milano si gioca il derby. I nerazzurri stanno vincendo 1-0 e mancano pochi minuti alla fine. Sotto gli occhi della dirigenza del presidente Steve Zhang la squadra in vantaggio porta il pallone vicino alla bandierina del corner e perde tempo finché l’arbitro fischia.

Prima che partano lettere di rettifica a L’Espresso, va precisato che si parla del torneo Carletto Annovazzi, che la partita si è giocata sul campo dell’Enotria, quartiere di Crescenzago a due passi dal parco Lambro. E soprattutto che era un torneo under 14 fra ragazzini nati dal 2008 in avanti eppure già perfettamente inquadrati nella dinamica del risultato a tutti i costi, fosse pure quell’uno a zero che sembra, ed è, inconcepibile in una partita fra sbarbati, per dirla alla milanese.

Una settimana prima, il 24 marzo, un altro match era finito con lo stesso risultato. Era Italia contro Macedonia del Nord alla Favorita di Palermo, dove gli azzurri hanno mancato per la seconda volta in fila la qualificazione ai Mondiali.

Pronti a tutto tranne che alle dimissioni, i dirigenti del calcio italiano avevano già messo le mani avanti valutando le alte probabilità di sconfitta con il Portogallo, non certo con i volenterosi macedoni. Nelle parole del presidente della Federcalcio Gabriele Gravina, era stato distinto nettamente il merito sportivo, che è la capacità dei giocatori di fare gol, dal merito politico, che è la capacità dei manager di essere eletti e restare avvinghiati alla poltrona il più a lungo possibile.

Questa passione per il mobilio è stata confermata da un altro grande classico che segue alle figuracce sportive, dunque economiche. È il tavolo, completamento naturale della poltrona. Così si sono seduti al tavolo delle riforme Gravina della Figc, il neopresidente della lega di serie A Lorenzo Casini, esperto di diritto amministrativo e beni culturali, Mauro Balata della lega di B, Francesco Ghirelli della lega Pro (ex serie C), Giancarlo Abete della lega dilettanti o Lnd, Umberto Calcagno dell’Assocalciatori o Aic, Duccio Baglioni per gli arbitri e l’ottantunenne di ferro Renzo Ulivieri per gli allenatori.

Al tavolo delle riforme le facce più nuove sono quelle di Casini, che ha una limitata esperienza sportiva ma è stato assistente di Sabino Cassese, oltre che collaboratore di Giulio Napolitano e Bernardo Mattarella, entrambi figli di presidenti della Repubblica, e quella di Calcagno, avvocato con due presenze in A e tanta serie C che ha preso il posto di Damiano Tommasi. Gli altri hanno un’anzianità di servizio aggregata ben superiore a un secolo, con porte girevoli ben oliate per Abete, ex presidente federale, ex commissario della Lega di A ed ex deputato. Persino il suo successore alla guida della Figc Carlo Tavecchio, dimessosi con riluttanza dopo l’eliminazione da Russia 2018, è tornato alla guida del comitato regionale lombardo.

Scartata in partenza l’ipotesi di rinnovare gli uomini, il tavolo ha individuato alcuni colpevoli. In parte sono i soliti sospetti, come i vivai che non vengono alimentati dai club, e i malvagi per eccellenza ossia i procuratori che perfino in un anno pandemico come il 2021 sono riusciti a incassare dalla serie A 174 milioni di euro in commissioni con un podio che dice Juventus (28,9 milioni), Inter (27,5 milioni) e Roma (26 milioni). Indiziato di reato è anche il decreto crescita, il sistema di tassazione agevolata che doveva portare in Italia le migliori menti della scienza residenti all’estero e invece ha regalato la potenza di Romelu Lukaku e la tecnica di Cristiano Ronaldo, finché i due se ne sono tornati in Premier league.

Accusato da Gravina di distorcere quella stessa crescita che vorrebbe promuovere, il decreto approvato nella primavera del 2019 dal primo governo Conte trova difensori arcigni nei grandi club che non sembrano volere cedere sull’aumento delle quote-vivaio in prima squadra e avvertono che l’abolizione delle agevolazioni darà un ulteriore colpo alla competitività in campo e ai bilanci. In Lega di A si ribadisce che anche nella condizione attuale i club italiani sono i più spremuti fiscalmente dopo la Francia e prima della Spagna.

Per uscire dall’impasse tornano le ipotesi classiche dei momenti di crisi. Fra queste c’è il tetto ai salari. Se ne parla da oltre un quarto di secolo, fin dai tempi di Sergio Cragnotti e Calisto Tanzi. Ma il costo del lavoro non ha mai smesso di crescere in un contesto globalizzato dove chi offre di più ingaggia i campioni. In dieci anni gli ingaggi della serie A sono saliti di 640 milioni e il risultato netto negativo della massima divisione è passato da 312 milioni nel 2011-2012 a 1025 milioni di euro la stagione scorsa. Nell’ultimo quinquennio i debiti sono esplosi da 2,1 miliardi di euro a 3,4 miliardi. Colpa della pandemia? Di sicuro il Covid-19 ha portato ulteriori distorsioni a una contabilità usa agli eccessi creativi. Proprio in questi giorni è partito il processo sportivo sulle plusvalenze che coinvolge undici società professionistiche mentre la Procura di Torino prosegue l’inchiesta penale Prisma sugli stipendi tagliati dalla Juventus e poi restituiti ai calciatori attraverso un sistema di scritture private in parte sparite.

Al tavolo delle riforme si parlerà di altri vecchi cavalli di battaglia, come la riduzione della serie A da venti a diciotto squadre secondo il modello tedesco, il più vincente al mondo se si guardano i risultati della nazionale dal 1970 a oggi.

Un’altra questione-feticcio è quella degli stadi di proprietà. Milan e Inter stanno battagliando con chi non vuole radere al suolo San Siro, una truppa eterogenea ma battagliera di ambientalisti, ex campioni e comuni cittadini che sta mettendo in crisi persino il sindaco Beppe Sala, favorevole per parte sua al nuovo progetto dello studio di architettura Populous e all’ennesima operazione di sviluppo immobiliare in stile monegasco.

Il Napoli, la Fiorentina e l’As Roma, protagonista di una telenovela giunta al tredicesimo anno, combattono con convinzione decrescente per ottenere nuovi impianti al livello delle grandi leghe europee. L’opinione comune addita come esempio italiano più lodevole la Juventus. Lo Stadium è stato inaugurato nel settembre 2011. In questo intervallo la Juve ha vinto tutti gli scudetti tranne l’ultimo, zero coppe europee e ha chiesto ai soci aumenti di capitale per complessivi 820 milioni di euro, di cui 700 soltanto nel biennio 2019-2021. Questi dati dimostrano che lo stadio di proprietà, da solo, non è un toccasana.

È difficile riportare il pubblico allo stadio quando si gioca un calcio noioso, sotto ritmo, intasato di stranieri mediocri mentre gli italiani usciti dai vivai vengono utilizzati principalmente per scambi di mercato a prezzi insensati, come ha evidenziato l’inchiesta su Juve, Napoli, Genoa, Sampdoria, Empoli, più due società di B, Parma e Pisa, che è appena arrivata al primo grado di giudizio sportivo. Il resto sono scuse.

Nel piagnisteo seguito all’eliminazione dai mondiali del Qatar si è sentito dire che i giovani italiani giocano troppo alla playstation, come se i videogiochi fossero un’esclusiva italiana. Altri pensano che i nuovi italiani - si presume privi di playstation - potrebbero rilanciare il sistema, come hanno fatto le nazioni europee più vincenti. Fautore di uno ius soli per chiari meriti sportivi è Giovanni Malagò, presidente del Coni al terzo e ultimo mandato con scadenza 2025. In questo campo l’Italia è in svantaggio nei confronti dei principali concorrenti come Francia, Inghilterra, Spagna, Germania, Portogallo, Olanda, che prevedono uno ius soli temperato ossia la cittadinanza per nascita più un altro criterio, come per esempio la residenza di uno dei genitori. In Italia Mario Balotelli è diventato cittadino a 18 anni, prima era ghanese senza mai essere stato in Ghana.

Sarebbe un passo avanti, magari da estendere anche ai non troppo meritevoli nello sport per una semplice questione di eguaglianza costituzionale. È logico attendersi resistenza dai custodi della “limpieza de sangre” italica.

Mentre i manager del pallone nazionale sono al tavolo delle riforme, gli enti internazionali procedono con il rischio di lasciare sempre più indietro il sistema italiano. Dalla Fifa, la federazione mondiale guidata dallo svizzero Gianni Infantino, si attendono nuove regole sugli agenti con l’ipotesi di mettere un limite alle commissioni. Ma è chiaro che la nuova norma sarà impugnata dai procuratori sportivi, con buone probabilità di successo.

L’Uefa presieduta dallo sloveno Alexander Ceferin ha mandato in soffitta il vecchio fair play finanziario di Michel Platini, ex capo della federazione continentale estromesso per scandali finanziari che ha da poco denunciato lo stesso Infantino per traffico di influenze illecite con l’ex procuratore elvetico Michael Laubner, incaricato dell’inchiesta sulla Fifa fra il 2015 e il 2019.

L’unico progetto di matrice italiana degli ultimi anni, la Superlega continentale propugnata da Andrea Agnelli contro il suo ex amico Ceferin, è stato accantonato dopo una battaglia che ha tenuto banco per settimane, a differenza delle notizie che arrivano dalla periferia, lontano dai riflettori della serie A. Eppure in serie C, dove si continua ad alimentare il sogno di un professionismo diffuso ben oltre le possibilità del sistema di sostenerlo, il dramma sociale e sportivo è l’ordine del giorno. Dopo la cancellazione per debiti di una piazza storica come Catania, pochi giorni fa a Foggia sono intervenute le forze dell’ordine per fermare gli ultras pronti a linciare un attaccante avversario.

A fine partita, è arrivato il solito commento: questo non è più calcio. Non lo è da un pezzo, non solo in curva, non solo a Foggia. 

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