Economia
dicembre, 2010

La Confindustria sta chiudendo?

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Dopo lo strappo di Marchionne altre grandi aziende potrebbero seguire il suo esempio, mollando l'associazione degli imprenditori. E c'è chi parla di una lobby giunta al tramonto

Ci mancava solo il problema dei soldi. Nell'inverno di Emma Marcegaglia, i contributi che fanno funzionare la sua Confindustria erano stati finora una questione trascurabile. Ora però la situazione diventa seria. Se Sergio Marchionne, alla fine, deciderà di portare anche lo stabilimento Fiat di Mirafiori fuori da Confindustria, per l'associazione il buco potrebbe superare il milione di euro. Dopo l'ingresso in Confindustria dei gruppi statali o ex pubblici, la Fiat non è più il principale finanziatore della mega-lobby (le Ferrovie sganciano circa 5 milioni). Il bilancio confindustriale si basa su contributi per 600 milioni versati dal pianeta impresa, in cambio dell'impegno profuso nell'assistenza quotidiana e nella gestione dei rapporti con governo e sindacati. Si tratterebbe di una piccola perdita, certo. Ma nessuno immagina quanto potrebbe dilatarsi la crepa, se il manager italo-canadese coronerà il proprio sogno: il contratto Fiat per tutte le fabbriche del gruppo, negoziato in prima persona da lui, senza intermediari e senza quei rompiscatole della Fiom-Cgil di mezzo. E se, soprattutto, altri industriali seguiranno il suo esempio, mollando la Confindustria.

Al di là dei soldi, per la Marcegaglia e per chi crede nella Confindustria tradizionale, con i suoi barocchi percorsi per l'elezione del presidente e il ruolo da suggeritore del governo, l'incubo è un futuro dove la Fiat avrà il suo contratto e altri gruppi lo vorranno. O nel quale, nella migliore delle ipotesi, prolifereranno le "discipline speciali", come vengono chiamate le regole ad hoc, aggiunte in calce per mantenere in piedi il simulacro dei contratti nazionali, lasciando al contempo tutti liberi. Un futuro in cui la Confindustria non servirà più, colpita dal fuoco amico di un Marchionne impegnato - a parole - a sparare contro sindacati, scioperi a sorpresa, finti certificati di malattia. Forse per questo, la presidente Marcegaglia non ha mai smesso di ripetere che l'accordo su Mirafiori è possibile con le regole attuali, senza che la Fiat debba per forza lasciare Confindustria: "Le tecnicalità sono in secondo piano, l'importante è che si faccia l'investimento", ha detto.

Incredibile destino: dopo decenni di contrapposizione, la crisi dei sindacati si riflette in quella della Confindustria. Lo dice Giorgio Airaudo, che nella Fiom è responsabile dell'auto: la fine del contratto per tutti spingerebbe "sull'orlo del baratro quella parte del sindacato abituata a vivere di rendita e senza voglia di confliggere, che non avrà la forza di andare ai cancelli delle fabbriche, dove si sposterà lo scontro. Parallelamente potrebbe segnare la fine della Confindustria, dove i vincoli associativi sono più deboli: i grandi la lasceranno perché cercheranno i fondi pubblici nei Paesi in grado di offrirli, mentre i piccoli continueranno ad accusarla di non fare i loro interessi". Una valutazione che collima con ciò che pensano al Lingotto. Va bene un contratto dell'auto nell'alveo di quello, nazionale, di Federmeccanica. A patto, però, che recepisca le volontà di Marchionne: 120 ore l'anno di straordinario obbligatorio, riduzione delle pause, nuove sanzioni sia per i lavoratori che per i sindacati. In pratica, o la Confindustria fa come vuole Torino, oppure addio. Federmeccanica o Federmarchionne?

Per capire la crisi di una lobby come la Confindustria, dotata di mezzi irraggiungibili per qualsiasi altra organizzazione, si può partire proprio dai quattrini, questione secondaria solo in apparenza. Perdere Mirafiori e Pomigliano vorrebbe dire perdere due aziende da 5 mila dipendenti l'una. Se gli stabilimenti smettessero di versare le quote sia agli organismi territoriali (come l'Unione industriale di Torino) che alla Federmeccanica - quantificabili a spanne in 100 euro per addetto - alla Confindustria mancherebbe un milione abbondante. Figuriamoci poi se seguissero anche gli altri impianti del gruppo, Melfi, Cassino, Pratola Serra, Val di Sangro. Per la Confindustria il segnale è brutto, capace di accentuare la tendenza che ha già condotto molti rami dell'associazione a non rinnovare le consulenze e a non sostituire chi va in pensione.

Per mantenere in piedi una struttura da 600 milioni, sotto le ultime gestioni sono state accolte in Confindustria le aziende a controllo pubblico, Poste, Ferrovie, Eni, Enel, Finmeccanica, che garantiscono apporti milionari ma i cui vertici sono nominati direttamente dalla politica. Con le polemiche del caso, che s'alzano di decibel quando il governo viene accusato di non aver risposto alle richieste degli industriali. "Quando furono fatte entrare le aziende pubbliche, oltre a reperire nuovi fondi, si disse che si sarebbero aiutati i manager che si comportavano da imprenditori e, magari, agevolate le privatizzazioni", spiega Michele Perini, titolare di una ditta di arredi ed ex presidente di Assolombarda. Non è andata così: privatizzazioni non se ne fanno più e, se uscirà la Fiat, saranno le aziende pubbliche a mantenere la Confindustria. "Dal mio punto di vista, l'industriale che punta sull'export e rischia di tasca propria è cosa diversa sia dal manager statale che dall'imprenditore dei servizi, interessato solo al mercato di casa", dice Perini, chiedendo una riforma che modifichi gli equilibri di rappresentanza di aziende grandi e piccole al vertice della Confindustria.

I nodi da sciogliere ruotano intorno a due questioni: contratti e sviluppo. Per alcuni imprenditori, la mossa di Marchionne può rappresentare una svolta taumaturgica. Altri temono delusioni: "Non credo che l'auspicabile sterzata, in grado di mettere in discussione i vincoli d'altri tempi dei contratti, ci sarà davvero: perché il mondo delle imprese italiane è restio a fare scelte impopolari, necessarie per preparare un futuro migliore. Si comporta come l'Italia col debito pubblico: si sa che è un fardello che andrebbe alleggerito ma si preferisce scaricare il problema sulle spalle dei nipoti", dice Guidalberto Guidi, presidente dell'Anie, l'associazione delle imprese del settore elettrico.

Ma cosa rimprovera, la mitica "base", ai vertici di Confindustria? Di non aver costretto il governo a impegnarsi a favore della crescita del Pil. "Nei cinque mesi di assenza del ministro dello sviluppo economico, ci aspettavamo che Confindustria incalzasse Berlusconi con 50 proclami al giorno, invece l'ha fatto senza troppa convinzione", si lamenta un imprenditore veneto. Le associazioni territoriali, è opinione comune, nella crisi hanno dato il massimo, gestendo le emergenze con buona volontà. Ma mentre in periferia si facevano i salti mortali, al centro si ondeggiava tra le critiche e il sostegno all'esecutivo. "Oltre ad abusare con l'invio dei probiviri nelle associazioni locali", dice un altro industriale."È vero, al centro la Confindustria si è rivelata un po' chiusa, troppo romana, però non credo che la mossa di Marchionne finirà per provocare una diaspora", commenta lo storico dell'economia Giulio Sapelli, che mette in guardia: "Servono certamente accordi transnazionali innovativi, però Marchionne si muove come il classico elefante nel negozio di cristalli: se metti in scacco Confindustria e sindacati riformisti, chi rimane con cui trattare?", si chiede retoricamente Sapelli.

Se la Confindustria rimarrà al centro del sistema o subirà una fuga, si vedrà. Appare però ragionevole l'analisi dell'economista Tito Boeri, secondo il quale la lobby degli imprenditori si è fatta trovare impreparata dalla bomba di Marchionne, anche perché affetta da immobilismo e conservatorismo. "Le imprese italiane, in realtà, hanno paura della contrattazione: preferiscono affidarla alla Confindustria per poi gestire sul campo ciò che viene deciso al centro. E hanno perso un'occasione eccellente di portare a casa risultati concreti, sfruttando le diverse posizioni di Cgil da una parte e di Cisl e Uil dall'altra". Per il docente della Bocconi, animatore del sito lavoce.info, con la prima la Confindustria avrebbe potuto spingere sulla modifica del sistema di rappresentanza, un'ipotesi che non piace a Cisl e Uil (vedi intervista a pagina 116). E, nel contempo, avrebbe dovuto capitalizzare la sintonia con le altre due per ampliare il peso della contrattazione decentrata. "Invece ha preferito traccheggiare, non scontentare nessuno e ora corre il rischio di essere sempre meno rilevante nelle battaglie che contano", chiosa Boeri.

Tra critiche e timori di fuga, a inizio 2011 partirà la trafila infinita per designare il successore di Emma Marcegaglia, una partita dove abbondano i nomi papabili, dal proprietario della Mapei, Giorgio Squinzi, a quello della Brembo, Alberto Bombassei, ma mancano i volontari. Con il dubbio che, in questo rito al limite dell'esoterico, qualcuno si ispiri al poeta Guido Ceronetti. Il quale, pochi giorni fa, ha scatenato la tempesta con un provocatorio articolo intitolato "Se la Scala chiude, che male c'è?". E un po' per gioco, un po' no, provi a buttarla lì: "Se la Confindustria chiude, che male c'è?".

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