Chi ha studiato punto per punto la finanziaria lancia l'allarme: tempo tre mesi e saremo daccapo. Perché con la 'cura' Tremonti non può esserci alcuna ripresa

La manovra non serve a niente

E' iniziato al Senato l'esame della manovra da oltre 45 miliardi e ancora non si sa bene cosa uscirà confermato e cosa bocciato delle misure decise dal governo il 13 agosto scorso: resterà l'aumento Irpef ai redditi medio alti? Arriverà il ritocchino all'Iva? Si farà qualcosa di serio sull'evasione? Verranno davvero cancellati gli enti locali più piccoli?

Ma mentre in Senato si discute fuori ci si mettono le mani nei capelli. Perché comunque vada, il rientro dopo le vacanze sarà un dolore e una luce in fondo al tunnel proprio non si vede.

Per l'economista Giacomo Vaciago, ordinario di politica economica e direttore dell'Istituto di Economia e Finanza dell'università Cattolica di Milano «il vero problema è che il nostro Paese non ha futuro. E' stato accumulato un debito enorme, senza alcun investimento e non si intravede alcun risanamento. Non c'è nessun intervento sulla spesa per le opere pubbliche, sulla competizione di mercato. Nessuna delle riforme che Banca d'Italia, Bce e tutti auspicano da tempo».

Secondo Vaciago, «questa manovra deprime l'economia e produce recessione. Una scelta fatta non per cattiveria, ma per ignoranza. Tremonti non ha mai studiato economia e non si fa consigliare, continua a reagire d'emergenza, ma la crisi, che lui reputa inaspettata, è iniziata già quattro anni fa, il 9 agosto del 2007. E' cominciata con una crisi di liquidità che fin dall'inizio è stata crisi di solvibilità e crisi dell'industria che, privata del credito, in soli sei mesi, ha calato la produzione del 30 per cento. In Italia, da mesi, gli economisti avevano chiara la gravità della situazione, eppure chi ci governa non si è preoccupato. Il risanamento ha aspetti impopolari, nel nostro Paese il ritardo accumulato sulle infrastrutture e la produttività pesa sempre di più, ma fin quando un ministro invece di pensare a telelavoro e banda larga si vanterà di 'poter fare la coda a Monza' invece che a Roma, non si vada da nessuna parte. In tre mesi sono state fatte tre manovre, Bersani ha la sua manovra, vi è l'assoluta incertezza. Le manovre fanno sempre male, spaventano le famiglie, ma un conto è prendere antibiotici per arrivare a lunedì, altro è per guarire. L'unica speranza è che Angela Merkel, oltre alle prediche, attui una politica espansiva, altrimenti saranno gli anni Trenta e per uscire sarà necessaria una guerra».

Secondo Irene Tinagli, docente in economia delle imprese all'Università Carlos III di Madrid e consulente del Dipartimento Affari Economici e Sociali dell'Onu e della Commissione europea, «innanzitutto c'e' da vedere come andrà a finire questa partita: negli ultimi giorni abbiamo sentito proporre e smentire di tutto. Anche questo è un pessimo segnale, che non trasmette fiducia ne' ai cittadini ne' ai mercati».

Per la Tinagli, che fa parte del comitato promotore di Italia Futura, l'associazione con a capo a Luca Cordero di Montezemolo,«bisogna anche capire quali saranno i criteri di molti dei tagli previsti, soprattutto per gli enti locali: quelli operati già in passato da questo governo sono stati ciechi, spesso penalizzando le realtà più virtuose e non incentivando nessuna riorganizzazione seria. Anche i moltissimi tagli che vediamo su famiglie e servizi non prevedono, al momento, nessuna forma chiara di riorganizzazione delle politiche sociali e del lavoro. Questo significa che si tratta di provvedimenti emergenziali fatti con criteri confusi e di corto respiro. Il dramma e' che gli effetti saranno di corto respiro sul debito, ma di lungo periodo sulle famiglie e sui giovani, il cui peggioramento in termini di assistenza, servizi e qualità della vita rischia di andare ben oltre il 2015».

Benedicta Marzinotto, la giovane economista italiana del centro studi Bruegel, il principale think tank economico europeo, è convinta che nella manovra «manca qualsiasi visione strategica di medio-lungo termine sui temi della crescita. Inoltre il rischio italiano è legato alla scarsa credibilità della classe politica nazionale e all'idea che un governo debole non sia in grado di implementare riforme strutturali. L'Europa può anche dettare le regole per il contenimento del deficit, ma la crescita è responsabilità della classe politica nazionale che dovrebbe conoscere, meglio di chiunque altro, i meccanismi per abbattere interessi consolidati di parte».

Bill Emmott, ex direttore di 'The Economist' e autore di "Forza, Italia! Come ripartire dopo Berlusconi", valuta la situazione italiana come un segnale chiaro di «quanto poco sia stato fatto nel secondo mandato del governo Berlusconi per aumentare il tasso di crescita e diminuire il peso del debito pubblico italiano. Con un debito del valore di 1600 miliardi di euro, un pacchetto di tagli di meno di 50 miliardi dal deficit non può fare una grande differenza. La soluzione vera sarebbe la crescita. La crescita però non può essere raggiunta velocemente o facilmente, quindi è giusto in questo momento tagliare il deficit. Il governo aveva bisogno di aumentare la sua credibilità verso gli investitori internazionali e questo pacchetto aiuterà: conferma che le dichiarazioni del presidente del Consiglio sulla volontà di tagliare le tasse possono ora essere dimenticate. Le misure quindi cambieranno anche l'equilibrio politico del Paese: mentre solo qualche mese fa si poteva dire che il Pd e il Terzo Polo erano favorevoli ad aumentare le tasse o tagliare la spesa pubblica, mentre il Pdl e la Lega Nord ai tagli delle tasse, ora questo non è più vero. Il governo Berlusconi è quello che deve farsi carico di aumentare le tasse e diminuire le spese. Il contesto per le nuove elezioni, quando mai avverranno, è stato trasformato. Il pacchetto lascia in ogni caso alcune azioni necessarie fuori.

In particolare l'età pensionabile dovrebbe essere aumentata, le partecipazioni statali in Enel, Eni, Telecom dovrebbero essere vendute, i costi della politica drasticamente ridotti. Secondo me questa manovra non è che l'inizio». Quanto all'idea di possibili proteste popolari, Emmott ritiene che «non ci saranno. La tassa sulla solidarietà aiuta a far apparire il pacchetto giusto e se i sindacati indicessero scioperi, sembrerebbero non patriottici e sarebbero messi sotto esame non solo dal governo, ma anche dal Quirinale. Se poi avverranno delle rivolte, a mio avviso, assomiglieranno più agli "indignados" della Spagna piuttosto che a quelle di Londra o alle macchine bruciate a Berlino. In altre parole proteste politiche piuttosto che, come a Londra e Berlino, una semplice sfida all'ordine e alla legge».

Reazioni di massa e proteste sociali sono improbabili anche per Giuseppe De Rita e Daniel Gros. Per Gros, presidente del Centre for European Policy Studies (Ceps) di Bruxelles, tra i massimi esperti di unione monetaria europea «la manovra non condurrà a proteste di massa o disordini come in altri Paesi. Gli italiani si rendono conto questo aggiustamento è inevitabile per permetter all'Italia di rimanere nell'euro e di recuperare un minimo di credibilità per la politica fiscale». Più che di aggiustamento inevitabile, per De Rita, sociologo e presidente del Censis, si tratta di «adattamento ed incertezza. E' difficile pensare a reazioni immediate alla manovra. Più che altro perché non è ancora chiaro chi colpirà, se le pensioni, i comuni, le partite Iva. E' troppo a largo raggio e lascia i cittadini sospesi. Siamo un popolo adattivo, ma ora non sappiamo a cosa adattarci». Rimane per De Rita l'amara considerazione «di una generazione dimenticata. La sfiducia dei giovani si ricollega infatti a una sfiducia del sistema incapace di fare sviluppo».

La protesta è vista invece come «l'unico mezzo per rintuzzare questo governo» dal sociologo Domenico De Masi: «'Chi crede possibile una crescita infinita in un mondo finito, o è un pazzo o è un economista', diceva l'economista Kenneth Boulding, e i fatti di questi ultimi mesi gli stanno dando ragione. Per oltre mezzo secolo, la crescita del nostro Pil, invece di aumentare, è costantemente diminuita fino ad azzerarsi. Dal 1952 al 1980 la sua crescita a prezzi costanti ha oscillato intorno al 6 per cento; tra il 1980 e il 2000 ha oscillato intorno al 2 per cento; dal 2000 in poi è sceso ancora sotto, fino a toccare lo zero.

Il mondo globalizzato è fatto a vasi comunicanti e non è possibile che la Cina o l'India marcino al ritmo di più 10 mentre noi, con i nostri 30 mila euro di Pil pro-capite, continuiamo a crescere. Cinque sesti dell'umanità sono sempre in crisi. Ora tocca anche all'ultimo sesto, che finora era cresciuto anche a spese della natura, dei paesi poveri e delle future generazioni. Se la decrescita è programmata, può comportare persino un maggiore benessere; se è subìta (come quella attuale), provoca un "si salvi chi può" in cui sono i più deboli a farne le spese. Tanto più che l'attuale governo è di destra e dunque, per sua intima costituzione, è dalla parte dei forti».

Per Carlo Carboni, professore ordinario di Sociologia dei processi economici e del lavoro, «manca una visione del futuro. Era necessario un alleggerimento della pressione fiscale e invece la manovra colpisce chi ha sempre pagato, cioè i ceti produttivi. Sarebbe stato opportuno intaccare le rendite di posizione e colpire l'evasione fiscale, il fisco era una questione che doveva essere maggiormente toccata. Un provvedimento come la manovra deve essere condiviso dalla maggior parte dei cittadini, le misure devono essere prese su un sentiero di coesione sociale e devono favorire la parte migliore del Paese, ossia chi produce». Un pensiero va poi ai giovani «continuamente dimenticati, non si tratta solo dei precari. E' di questi giorni la notizia di una riduzione di oltre 60mila unità di giovani imprenditori. Vi è un'assenza dai mestieri di un'intera generazione e non si sta facendo nulla. Mancano investimenti selettivi da parte dello Stato, capaci di indicare le priorità di sviluppo e di investire in ricerca ed istruzione».

Di «ulteriore peggioramento sui giovani» parla anche Maurizio Franzini, ordinario di politica economica all'università La Sapienza di Roma. "Non si sono posti il problema. E' una manovra di affanno, fatta di una sequela di proposte e controproposte, frutto di improvvisazione. Non vi è traccia di misure strutturali e di interventi sul mercato del lavoro capaci di riscrivere le regole della flessibilità. Manca una politica industriale adeguata e capace di creare posti di lavoro. Ne subiranno le conseguenze soprattutto i giovani, penso che aumenteranno ancor di più le distanze tra chi ha una famiglia alle spalle in grado di aiutare e chi sarà escluso e anche se non ci sarà una protesta simile a quella spagnola, il malessere diffuso che già si avverte dovrebbe essere una priorità per la classe politica».

LEGGI ANCHE

L'E COMMUNITY

Entra nella nostra community Whatsapp

L'edicola

Insidie d'agosto - Cosa c'è nel nuovo numero de L'Espresso

Il settimanale, da venerdì otto agosto, è disponibile in edicola e in app