In un suo articolo sul "Financial Times" di qualche giorno fa ha ipotizzato che la Germania si potesse staccare dall'Europa: è un'idea in cui crede?
"Nel mio articolo riportavo il pensiero di una buona fetta dell'establishment tedesco, che sarebbe tentato di abbandonare l'Europa e continuare a esportare nei Bric. Ma io non credo che nel breve periodo sia possibile abbandonare l'Europa. Circa il 40 per cento delle esportazioni tedesche sono indirizzate al Vecchio Continente e, sebbene in diminuzione, ci vorranno almeno cinque anni prima che i mercati internazionali diventino prioritari rispetto a quelli dell'Unione. Comunque sottovalutare il mercato interno - perché questo è per la Germania il mercato europeo - non è una mossa intelligente. Gli Usa hanno dimostrato che la forza della stabilità economica sta proprio nel motore propulsivo dei consumi interni. Il futuro della Germania è in Europa. Ha dimostrato di crederci anche Il governo tedesco, che ha fatto molti sbagli nel gestire la crisi europea e nel non capire le conseguenze delle misure di austerità, ma che adesso è più realista. La cancelliera tedesca è pronta a concedere più potere a Bruxelles perché trovi soluzioni complesse per la crisi. Ma Merkel non ce la può fare da sola: la Francia deve decidersi a cedere una parte del potere nazionale a un'Europa federale".
L'unione fiscale e politica dell'Europa potrebbe finalmente concretizzarsi?
"La crisi ci ha fatto capire che ci occorre un governo economico che prenda decisioni sulla politica fiscale europea e sulle politiche del lavoro, che dovranno essere armonizzate. Nel lungo periodo occorrerà anche un sistema di trasferimento delle risorse dai più ricchi e ai più poveri. E non intendo dire dai paesi ricchi a quelli poveri, politica che non sarebbe accettabile per la Germania. Piuttosto di un sistema che prelevi una tassa europea da cittadini e imprese per versarla in un fondo comune che poi redistribuirà le risorse a chi ne ha più bisogno. In questo modo verrebbero favoriti solo indirettamente i paesi più deboli".
Siamo in una fase meno pericolosa della crisi europea?
"Non è la crisi a essere terminata ma la pressione dei mercati ad essersi allentata. Non si tratta di una crisi di liquidità, ma di una complessa crisi di solvibilità che coinvolge sia il settore pubblico sia quello privato. La Banca centrale europea ha comprato tempo, circa uno o due anni. Se non lo sapremo amministrare l'unico destino dell'Unione sarà la rottura".
Come vede la crisi greca?
"L'accordo con la Troika non sembra certo. Il Paese non deve solo promettere riforme ma anche metterle in pratica, altrimenti non potrà mai tornare su un sentiero sostenibile. Non sarà facile. Con la diminuzione del prodotto interno lordo aumenta il debito e c'è un limite al rigore che si può chiedere al Paese. Anche se la Grecia raggiungesse dopo dieci anni di depressione un rapporto debito/Pil del 120 per cento entro il 2020, come previsto nei piani, cosa avrebbe risolto?".
Dunque il default è inevitabile?
"La Grecia dovrà fare default. Se sarà dentro o fuori dall'Europa dipenderà solo dal fatto che metta o meno in pratica le riforme richieste dalla Troika. Dopo la Grecia potrebbe toccare al Portogallo, che si trova nella stessa situazione difficile, ma che a differenza di Atene gode ancora del patrimonio di fiducia della Ue".
E l'Italia?
"Le riforme di Monti sono state accolte da un eccesso di entusiasmo e non potranno da sole risolvere la crisi. Hanno avuto l'effetto di aumentare la fiducia nel breve termine. Il problema vero è il debito insostenibile: occorrerebbe una crescita del Pil del 3-4 per cento l'anno per ridurlo dal 120 al 100 per cento. E con la recessione dietro l'angolo non credo proprio sarà possibile".
Quale potrebbe essere la soluzione per l'Italia?
"Riforme politiche che garantiscano stabilità, e poi gli Eurobond. Ma questi non si possono ottenere senza cedere una fetta di sovranità. Le misure di austerità da sole non funzioneranno, a meno di essere ricondotte all'interno di un'unione politica".